Ap ologia del pensiero condensato
Benjamin, Simone Weil, per dare un’idea della qualità e autorità di queste forme. Quanto al narrare, proprio Benjamin notò precocemente che la narrativa e la sua qualità erano minacciate dall’ingigantirsi dell’informazione, mentre recentemente lo scrittore nigeriano Ben Okri ha formulato in un suo aforisma la seguente diagnosi: «I narratori malati possono far ammalare la propria nazione. E nazioni malate producono narratori malati». Mi pare che qui ci sia in poche parole abbastanza materia su cui riflettere.
Nel volume Aforismi e alfabeti compaiono incrociate due forme. Il pensiero condensato è stato spesso organizzato in ordine alfabetico, ordine che è da un lato antigerarchico e dall’altro allude a una completezza enciclopedica che tuttavia non fa sistema, è priva di architettura e di coerenza logica. Quando i narratori non riescono più a scrivere romanzi capaci di suggerire un’immagine totalizzante della vita sociale, quando la filosofia si specializza nell’esplorazione di ambiti delimitati del conoscibile e del pensabile, o elabora idee-mito percorrendo ossessivamente i confini dell’esperienza senza attaversarne i territori, allora l’abbecedario può apparire uno dei modi più ironicamente adeguati per dare un ordine provvisorio a un disordine irrimediabile o perfino preferibile. Se le logiche hanno mostrato di poter produrre criminali paranoie, meglio evitare troppi nessi dialettici, rifugiarsi nell’evidenza del frammento, lasciare chi legge più libero di circolare a modo proprio al- l’interno di una struttura non costrittiva.
Si potrebbe fare un’ipotesi. Quando le società erano, nello stesso tempo, più autoritarie e più caotiche, si sentiva il bisogno di costruire sistemi filosofici che mettessero ordine nel mondo. Da quando l’ordine sociale penetra sempre di più in ogni aspetto della vita quotidiana e in ogni genere di rapporti fra individui, il pensiero preferisce evadere, aprire spiragli e punti di fuga, evitare le teorie generali, privilegiare i dettagli e le micrologie.
L’insieme degli scritti provenienti dal convegno bolognese dell’aprile 2015 su Aforismi e alfabeti offre una tale quantità di analisi storiche e stilistiche su autori e costellazioni di autori di diverse letterature, che si ha l’impressione di assistere a una vera festa della “Letteratura comparata”, disciplina oggi praticata nelle università a volte convenzionalmente e superficialmente. Data l’alta competenza specifica degli autori presenti nel libro, ho trovato personalmente più da imparare che da obiettare.
Sia centrale che opportunamente introduttivo è il saggio di Jean Mondot «L’aforistica di Lichtenberg come scrittura da outsider ». L’illuminista Lichtenberg, che conosceva i moralisti classici francesi e i loro aforismi, annuncia la scrittura per frammenti dei romantici Novalis e Friedrich Schlegel. Il suo stile era però diverso. In quanto osservatore dei costumi e commentatore della pittura di Hogarth, Lichtenberg combina la critica sociale e politica, la critica delle idee con l’attenzione all’uso delle parole e con un gusto umoristico per il non- sense. Nasce da lui una tradizione di outsider del pensiero che va da Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche, suoi ammiratori, fino a Freud, Kraus, Wittgenstein, Benjamin. In Francia il suo humour colpì André Breton e i surrealisti: uno dei suoi aforismi più noti, quello sul «coltello senza lama a cui manchi il manico», è in effetti surreale.
Sul Settecento aforistico tedesco insiste Giulia Cantarutti. Lorenzo Rega parla di Franz Blei, autore del Bestiario della letteratura moderna (1922). Alessandro Niero ci fa conoscere un campione della cultura underground russa anni settanta come Dmitrij A. Prigov. Ceccherelli si concentra sulle memorie aforistiche-alfabetiche che il grande poeta polacco Czeslaw Milosz ha raccolto nel suo Abbecedario (199798). Betania Amoroso studia i rapporti tra poesia e prosa aforistica di Murilo Mendez, vissuto a lungo a Roma. Silvia Albertazzi ci fa scoprire il nigeriano Ben Okri (pubblicato in Italia da minumum fax nel 2000). Infine Ruozzi si dedica agli «Alfabeti aforistici italiani del Novecento», da Papini a Longanesi e Brancati, a Flaiano, Savinio, Ceronetti.
Essendo molto attratto dalla forma aforistica, mi permetto un’ovvia e modesta avvertenza che è soprattutto una constatazione: l’aforisma si vendica crudelmente di coloro che si mettono a praticarlo per inconsulta vanità, perché ne rivela subito l’insipienza. Purtroppo l’aforisma ha la pretesa di essere, oltre che il più economico, il più intelligente dei generi, e perciò non solo non sopporta gli stupidi, ma neppure la momentanea stupidità degli intelligenti
Aforismi e alfabeti, a cura di Giulia Cantarutti, Gino Ruozzi e Andrea Ceccherelli, Il Mulino, Bologna, pagg. 254, € 19