Algoritmi ispirati dagli dei
Una suggestiva (e controversa) storia della matematica che legge in continuità pitagorismo antico e Dedekind e Cantor
i quale realtà ci parla la matematica? » si chiede Paolo Zellini in apertura di questo suo nuovo libro. La prima risposta che egli ci suggerisce riprende «l’opinione diffusa» che i matematici si occupino di formalismi ed enti astratti che «per ragioni inspiegabili» trovano applicazione « in ogni ambito della scienza». Come spesso capita, le opinioni diffuse non corrispondono al vero, o lo fanno solo parzialmente. Così accade anche per l’opinione precedente.
Invero, i formalismi dei matematici hanno trovato e trovano applicazione non in ogni ambito ma solo in ben determinati ambiti della scienza, tipicamente nelle scienze fisiche ma solo occasionalmente e, almeno per ora, in maniera poco significativa nelle scienze della vita. Zellini ha ragione da vendere quando afferma che l’ignoranza delle vere ragioni che stanno alla base della « potenza descrittiva » dei formalismi matematici non aiuta certo a chiarire e far comprendere al pubblico dei non specialisti le motivazioni del pensiero matematico finendo così per alimentare presso quel pubblico un’immagine diffusa ( e distorta) della matematica, concepita come un vuoto gioco di simboli astratti.
La storia più remota della matematica rivela che le cose stanno in maniera assai diversa. Secondo Zellini, se pensiamo ai paradossi di Zenone ( Achille e la tartaruga è solo il più celebre), alla rappresentazione dei numeri con dei punti alla maniera dei pitagorici, agli atomisti antichi, alla filosofia matematica di Platone, alla scoperta dell’incommensurabilità di grandezze come la diagonale e il lato di un quadrato o di un pentagono regolare, ai calcoli dei babilonesi o alla matematica vedica «ci troviamo di fronte a una grandiosa compagine di conoscenze tese a cogliere la parte più interna e invisibile, e insieme più reale, degli enti che
| Zenone d’Elea indica le porte della verità e della falsità, affresco all’Escorial di Madrid
esistono in natura » . Che sia « una grandiosa compagine di conoscenze » non c’è dubbio. Come non c’è dubbio, però, che quella compagine sia costituita di conoscenze eterogenee, acquisite in contesti e con fini diversi, separate tra loro da secoli se non addirittura millenni come quelli che intercorrono tra i calcoli dei babilonesi e i dialoghi di Platone o la matematica vedica, assemblate insieme da Zellini per comodità di discorso.
Forse è vero, e Zellini lo sostiene in maniera convincente, che in epoche remote quelle conoscenze fossero « tese a cogliere la parte più interna e invisibile, e insieme più reale, degli enti » esistenti in natura ( questa è la tesi che egli argomenta in tutto il libro, e non solo per l’antichità), ma è largamente discutibile la sua affermazione che la teoria dei numeri e del continuo elaborata dal matematici dell’Ottocento «si propose come un ideale proseguimento dell’antico pitagorismo e della sua visione del mondo ispirata ad un principio di realtà atomistica » .
Nonostante gli argomenti prodotti da Zellini e la sua lettura suggestiva delle teorie Dedekind, Cantor o Weierstrass, si fa fatica a pensarli come ideali e consapevoli prosecutori del pitagorismo antico. Tanto più che le evidenze che ci hanno lasciato sembrano suggerire che le cose stanno altrimenti. Dedekind afferma esplicitamente di non essersi ispirato a Euclide nel definire i numeri reali come sezioni, ma di essere stato spinto dalla necessità di insegnare in maniera rigorosa il calcolo infinitesimale ai suoi studenti, e nel suo scritto sulla continuità e i nu-
meri reali sottolinea la natura assiomatica (e non costruttiva) del continuo. Cantor quando introduce i numeri reali non ha certo in mente le approssimazioni di radice quadrata di 2 dei pitagorici ma la necessità di definire in maniera rigorosa la continuità della retta ( e del campo numerico che la descrive) per rispondere a sottili questioni di analisi matematica, e le successioni che egli chiama fondamentali e definiscono i numeri reali sono quelle che, come lo stesso Zellini ricorda, soddisfano i criteri di convergenza introdotti da Cauchy all’inizio dell’Ottocento. E quando costruisce i numeri transfiniti afferma di descrivere quanto gli è stato rivelato da Dio.
D’altra parte, tutta la lettura che Zellini ci offre della matematica è improntata all’aspetto computazionale. Ciò che ha a che fare con i processi di assiomatizzazione, che dall’inizio del secolo scorso hanno caratterizzato le teorie matematiche – dalla teoria degli insiemi di Cantor all’algebra moderna, dalla geometria alla topologia – diventa marginale o addirittura scompare dalle sue pagine. Importanti strategie computazionali della moderna matematica, egli afferma, sono modellate secondo gli stessi schemi elaborati in epoche remote nel tempo, quando gli uomini si ponevano o ritenevano in stretta comunicazione con gli dei, che si trattasse della Grecia antica o dell’India vedica.
Da qui anche il titolo di questo libro. Si tratta di un tema già affrontato diffusamente in passato da Zellini nel suo Gnomon. Così come le modalità della crescita di figure geometriche come il quadrato e le relative procedure numeriche che approssimano la radice quadrata di 2 ( o in generale i numeri irrazionali) sono state ampiamente discusse nel suo Numero e logos. «La matematica è scoperta o invenzione? » si chiede Zellini riformulando la domanda iniziale. Si tratta di « un quesito ripetuto e abusato – egli afferma a ragione – che sembra voler suscitare una risposta critica, una distinzione conclusiva tra ciò che è reale e ciò che è soggettivo e arbitrario » .
Nella pratica del matematico, che si tratti di stabilire assiomi, dimostrare teoremi o risolvere equazioni, «il pensiero sembra conformarsi al reale, e l’arbitrio alla necessità» in un «groviglio inestricabile» che lascia la questione senza risposta. Anche se poi i calcoli e i formalismi creati dalla nostra mente «sembrano dettarci nostro malgrado le condizioni e le modalità della loro esistenza», al punto che Zellini facendo appello alle tesi di Hardy, «esposte senza esitazioni» e in modo piuttosto dogmatico nel suo celebre saggio Apologia di un matematico (1940) fa propria l’idea che l’atto di creazione del matematico non sia affatto libero da un’intrinseca necessità che «obbliga a ritenerlo una scoperta più che un’invenzione».
Paolo Zellini, La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini , Adelphi, Milano, pagg. 258 € 14