Negare il Dio dei teologi
Spinoza e d’Holbach segnano l’inizio e la fine di un’era, tra Sei e Settecento, in cui si affermò l’ateismo filosofico
Raccontare le vicende dell’ateismo moderno significa districarsi tra paradossi, ambiguità, allusioni, reticenze e professioni di fede fin troppo esibite per non essere sospette. Una storia insomma complessa, che «si dipana spesso nell’ombra», ma che Gianluca Mori riesce a portare alla luce grazie a una rigorosa analisi delle fonti e alla sua profonda conoscenza della filosofia moderna.
Tutto si svolge e si compie in un secolo esatto: tra la pubblicazione del Tractatus theologico-politicus (1670) di Spinoza e quella del Système de la nature (1770) del barone d’Holbach. Due opere che segnano l’alba e il tramonto di un’epoca, quando cioè la ribellione contro la teologia, forse sempre latente nella cultura occidentale, si dà una nuova veste filosofica, acquisendo finalmente piena visibilità e coscienza di sé. Se infatti prima di Spinoza l’ateo sembrava una chimera, della cui esistenza si poteva perfino dubitare, dopo d’Holbach non sarà più così, poiché da lì in avanti saranno molti i filosofi a proclamarsi atei. Con d’Holbach però, che è il primo a definirsi con orgoglio ateo, la parabola dell’ateismo moderno si conclude e la filosofia europea va ormai in altre direzioni.
Vera e propria «meteora della modernità», l’ateismo filosofico ha comunque una sua storia che Mori considera giustamente «non indegna di essere raccontata». Ma che non era per niente semplice ricostruire, trattandosi appunto di un fenomeno piuttosto sfuggente, se non altro «per le strategie di occultamento di sé e dei propri pensieri» che i protagonisti sono costretti ad attuare per scongiurare il pericolo quanto mai concreto di essere perseguitati e di subire pene assai severe. A complicare ulteriormente la questione contribuisce poi il fatto che nel XVII secolo e fino ai primi decenni di quello successivo è pressoché impossibile trovare un filosofo che si autodefinisca “ateo”. Anzi, quasi tutti i liberi pensatori più vicini all’ateismo, stando almeno alle loro esplicite affermazioni, si presentano come buoni cristiani, e anche quando scrivono clandestinamente preferiscono altri appellativi. Tanto più che ciò avveniva non solo per comprensibili ragioni di prudenza, ma anche per le connotazioni infamanti di cui il termine “ateo” era carico e che suscitavano disprezzo sia teorico sia morale. Non stupisce allora che in età moderna l’ateo, a prescindere da ogni possibile dissimulazione, non si consideri affatto tale.
Ecco perché la storia dell’ateismo moderno è attraversata da tanti paradossi. Il primo è quello di Spinoza che lo inaugura scrivendo un’opera, il Tractatus, con cui si proponeva di difendersi proprio da quanti lo avevano accusato di ateismo ancor prima che il suo pensiero fosse reso pubblico. E qualche anno dopo sarà la volta di Pierre Bayle, che nei Pensieri diversi sulla cometa (1682) baserà su un altro paradosso – quello cioè dell’ateo che può essere virtuoso soltanto andando contro i suoi stessi principi – «la prima sostanziale apologia dell’ateismo che la storia moderna abbia conosciuto».
In una materia così piena di insidie e che si presta a facili equivoci, Mori parte anzitutto da una definizione dell’ateismo, spesso trascurata dagli studiosi ma che è indispensabile per capire all’esistenza di quale Dio in età moderna esso si opponga. Anche perché tra Sei e Settecento c’è un punto su cui sono quasi tutti d’accordo, filosofi e apologeti, autori di manoscritti clandestini e accademici di ogni parte d’Europa: il darsi di un principio originario dell’universo, un ente neces- sario ed eterno, da cui tutto deriva. Si può pertanto sostenere l’ateismo e riconoscere allo stesso tempo una causa prima delle cose, una Natura, in qualunque modo poi la si chiami, al limite anche “Dio”. Un punto colto con lucidità dal platonico di Cambridge Ralph Cudworth che, nel suo The True Intellectual System of the Universe (1678), affermava infatti che il vero discrimine tra ateismo e teismo stesse altrove: nell’accettare o nel negare che una tale causa fosse intelligente e dotata di capacità progettuale.
È questa secondo Mori la definizione di Dio in base alla quale si è teisti o atei. E che si tratti di una definizione storicamente adeguata è testimoniato dal fatto che è condivisa da entrambi i fronti: «Cudworth, Locke, Clarke, Berkeley, Voltaire, da una parte, e dall’altra Boulainviller, Meslier, Toland, Fréret e d’Holbach – gli avversari dell’ateismo e i suoi difensori più o meno dichiarati».
In questa avvincente ricostruzione, l’ateismo filosofico si rivela un fenomeno parassitario, nel senso cioè che emerge come reazione al predominio assoluto del pensiero teologico. Anzi, si può affermare che in epoca moderna vi è stato un autentico ateismo filosofico soltanto finché è esistita
Illustrazione di Guido Scarabottolo una teologia filosofica. Nata durante la rivoluzione scientifica con Cartesio e sviluppata da Malebranche, Leibniz, Locke e Clarke, era stata portata alle sue estreme conseguenze prima da Spinoza, poi da Bayle e infine da d’Holbach.
E così, nel rendere Dio oggetto di scienza, la teologia razionale si era trasformata in una sorta di cavallo di Troia, poiché si poteva negare Dio proprio sulla base degli stessi argomenti scientifici da essa invocati. A tal punto che, tra gli atei moderni, era diventata comune « la convinzione che la negazione di Dio fosse l’esito necessario della teologia». Quando quest’ultima volgerà al tramonto, lo farà anche l’ateismo moderno, e la negazione di Dio avrà bisogno di nuove forme concettuali. Le troverà nell’Ottocento con Feuerbach, Marx, Nietzsche e poi, soprattutto, con le ricerche di Darwin sull’origine delle specie viventi. Ma è ormai in contesti completamente diversi che il dibattito sarà destinato a continuare.
Gianluca Mori, L’ateismo dei moderni. Filosofia e negazione di Dio da Spinoza a d’Holbach, Carocci, Roma, pagg. 297, € 26