Il sogno di vivere la propria vita
commemorazione attraverso «un’interiorizzazione metamorfica». Metamorfica perché essi non solo vengono solo trasformati in aspetti di noi stessi (come in una semplice identificazione), ma perché finiamo per includere, nella nostra identità, una loro versione che comprende una «concezione di chi avrebbero potuto diventare e non sono riusciti a diventare per via delle limitazioni delle loro personalità e delle circostanze di vita». Tener fede alla responsabilità di essere migliori dei propri genitori (e dei propri analisti) non è un atto di protesta o di ribellione: «è un tentativo di utilizzarli pienamente». Quale miglior «espiazione» per il fatto di averli uccisi? Libri come questo ci fanno riflettere sullo iato in molti casi non superato, forse insuperabile, tra una psicoanalisi della ricerca (noiosa da leggere e utile in modo oggettivabile) e una psicoanalisi della narrazione clinica (appassionante da leggere e utile in modo idiosincratico). In questo caso il piacere Giovedì 26 alle ore 18 Salvatore Natoli terrà al Teatro Franco Parenti di Milano una lectio magistralis « Sulla fiducia » , in occasione della pubblicazione del suo saggio « Il rischio di fidarsi » ( Il Mulino, Bologna, pagg. 167, € 12). Salvatore Natoli ha insegnato Filosofia teoretica nell’Università degli studi di Milano- Bicocca e Storia delle idee Vita- Salute San Raffaele di Milano. della lettura è aumentato dalla bella traduzione di Sara Boffito, analista non certo estranea alla sensibilità di Ogden.
Per pensare e sognare davvero, ripete Ogden, bisogna essere almeno i n due: « Quando qualcuno raggiunge i limiti della propria capacità di sognare le proprie esperienze disturbanti, ha bisogno di un’altra persona che lo aiuti a sognare i sogni non sognati». Ciò che permette al paziente di ritrovare la sua vita non vissuta è l’accesso allo spazio creativo formato dalle due menti (di paziente e analista) durante la seduta, quello che Ogden sul finire degli anni Novanta aveva teorizzato come «terzo analitico».
La presenza dell’altro attraversa il volume e diventa “emergente” nell’intervista finale. Ogni capitolo implica un dialogo, che è scambio e trasformazione. Con autori della psicoanalisi (Freud, Winnicott, Bion), grandi scrittori del passato (Kafka, Borges), colleghi del presente (Gabbard), con i propri pazienti. Se ci avviciniamo ( close reading) al testo di Ogden, se sogniamo con lui come lui sogna con i suoi altri autori, ci accorgiamo di un elemento che accomuna la scelta delle opere “rilette”. Di Winnicott, Bion e Kafka sceglie gli scritti più oscuri e terminali, concepiti, in tutt’e tre i casi, poco prima di morire. Per Borges sceglie invece il noto racconto La biblioteca di Babele, narrazione dell’universo labirintico, simulacro di vita non vissuta, del grande scrittore argentino. In questi scritti finali, Ogden rintraccia due elementi: da una parte un’oscurità enigmatica, un materiale grezzo e magmatico con cui stabilire una connessione inconscia e su cui sognare per generare quel pensiero trasformativo che permette il vero cambiamento analitico; dall’altra, queste opere, concepite anche come ultimo lascito (per Kafka Il digiunatore era l’unica opera da salvare dopo la morte), contengono esistenze intere ed esprimono il senso di responsabilità dell’essere vivi. «Per diventare umani rimanendo sani dobbiamo essere vivi in quel dolore così specificamente umano che deriva dal ”dono” della coscienza».
Ma perché «vite non vissute»? Ogden parte dall’idea che ogni paziente porti in analisi la sensazione di «essere morto» durante l’infanzia o anche in fasi successive della vita, sperando che il lavoro con l’analista lo aiute-
rà a ritrovare (forse a rivendicare) la «vita non vissuta». Il fulcro di molte analisi sarebbe dunque un evento terrorizzante del passato che ha costretto il paziente ad «assentarsi dalla propria vita» per proteggersi da un crollo psichico. Un modo per non sperimentare eventi intollerabili che continuano però a esistere come vita non vissuta. Troviamo qui inattesi elementi di convergenza con le riflessioni sul trauma e la dissociazione di autori contemporanei con background teorici diversi, uno per tutti Philip Bromberg.
Vite non vissute contiene riformulazioni preziose di alcuni concetti classici, come quello di inconscio («l’inconscio, oltre a costituire il dominio psichico dell’esperienza degli aspetti rimossi della vita che sono accaduti e sono stati sperimentati comprende anche un aspetto dell’individuo – spesso più fisico che psichico – che registra gli eventi che accadono ma che non vengono sperimentati. Quest’ultimo è quell’aspetto dell’individuo che porta con sé l’esperienza traumatica non assimilata»”), della memoria («noi non abbiamo ricordi, ricordiamo in modo triste, vago, ossessivo, e così via, e questi modi di ricordare ci trasformano come noi trasformiamo loro, sprofondiamo in essi e riemergiamo in una forma diversa da quella da cui siamo partiti»”) e del sogno («sognare è un verbo transitivo. Sognando, noi non facciamo un sogno su qualcosa, sogniamo qualcosa, sogniamo un aspetto di noi stessi. Sognando, siamo una cosa sola con la realtà del sogno; siamo il sogno. Sognando, siamo più noi stessi»).
È fondamentale, ci ricorda Ogden, che l’analista, durante la seduta, più che porsi la domanda freudiana classica «che cosa significa?» si chieda, con Bion, «che cosa sta accadendo?». Il lavoro dell’analista è quello di un essere umano che si prende cura e diventa «responsabile» di un altro umano, rivolgendo un’attenzione speciale al presente della relazione analitica. Perché conduca a una vera trasformazione, come ogni processo di crescita, l’analisi va pensata e sognata sempre in due: io e altro, figlio e genitore, allievo e maestro, paziente e analista. Un percorso difficile, spesso impossibile, sempre segnato da errori e fallimenti. Da intendere però in senso evolutivo, come il fail better beckettiano.
Thomas H. Ogden, Vite non vissute. Esperienze in psicoanalisi, Traduzione di Sara Boffito, Raffaello Cortina, Milano, pagg. 196, € 19