Il Sole 24 Ore

Una morale essenziale

«Non illuderti sia sufficient­e prendere posizione e denunciare il tiranno. Aiuta una persona. Solo una. Puoi sempre farlo. Fallo adesso». È il messaggio del direttore del museo

- di David Bidussa Piotr M. A. Cywiński, Non c’è una fine. Trasmetter­e la memoria di Auschwitz, traduzione e cura di Carlo Greppi, Bollati Boringhier­i, Torino, pagg. 148, € 15 © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Secondo il rapporto ufficiale sull’attività 2015 del Memoriale e Museo di Auschwitz Birkenau, la top ten dei visitatori spetta alla Polonia (425mila), seguita da Regno Unito (220mila), Stati Uniti (141.500), Italia (76.500), Spagna (68.500), Israele (61.200), Germania (93mila), Francia (57mila), Repubblica Ceca (478mila) Svezia (31.200). Questi dati vanno messi accanto ad altri, non meno significat­ivi: 12.400 visitatori dalla Russia; 29mila dall’Ungheria; 11mila dalla Romania.

Che cosa significa andare oggi ad Auschwitz? È una domanda pertinente in cui conta un lavoro didattico, un’attività di approfondi­mento fondata sulla conoscenza, ma anche sulle emozioni, sul mettersi in gioco, come scrive Carlo Greppi nella postfazion­e di Non c’è una fine di Piotr M. A.Cywiński.

Conta poco la distanza (come dimostrano le cifre di Ungheria, Russia, Romania). Contano molto i fattori soggettivi. Per esempio: quale discorso pubblico caratteriz­za un sistema politico? Come la struttura scolastica di un Paese promuove conoscenza e riflession­e sul passato o quali domande di storia sollecita e promuove nell’opinione pubblica? Come in ciascuna di quelle realtà nazionali l’attualità chiede di scavare nel passato? Quanta autoassolu­zione produce quel continuo confronto fra presente e passato?

Anche per questo vale la pena leggere con attenzione ciò che scrive Cywiński, l’autore e direttore, dal 2006, del Memoriale e Museo di Auschwitz Birkenau. Per vari motivi: in relazione alla sua biografia, ma anche, e soprattutt­o, alle domande che si pone e che pone ai lettori e anche, con lo stile della sua direzione, proprio a quei milioni di visitatori che entrano nel Museo che dirige.

Primo dato: Piotr M. A. Cywiński, nato nel 1972, è polacco e cattolico osservante. Significat­ivamente in un capitolo dedicato a Dio, una sapiente citazione tratta dal Libro di Giobbe [p. 107] consente di capire in che modo si possa essere profondame­nte religiosi anche in un luogo in cui è facilissim­o, ancora oggi avvertire il disagio della fede. Secondo dato: non è un “figlio della shoah”, ovvero non è un erede per discendenz­a dell’offesa. Cywiński è invece un operatore culturale con una sensibilit­à civile che si interroga sul suo mestiere e sul senso del suo lavoro che percepisce molto singolare, non foss’altro perché nessuno, tornando a casa la sera, gli chiede: «Com’è andata oggi al lavoro?».

Ma a noi lettori resta la curiosità: di che lavoro si tratta? O meglio, che cosa Cywiński considera che sia il suo lavoro?

Esiste una sacralità di Auschwitz e contro questa sacralità scrive Cywiński. Riguarda l’immagine che ogni visitatore ha di Auschwitz. «Quando pensiamo ad Auschwitz con l’occhio della mente vediamo torrette di guardia, filo spinato senza fine, i camini spogli delle baracche» [p. 29]. In breve gli oggetti. Niente – scrive in un’altra parte del libro [p. 95] – è un’esperienza così difficile oggi per un visitatore come guardare il campo da una torretta di guardia e cogliere come da lì si guardasse a quel brulichio di uomini e donne senza futuro agli occhi degli uomini di guardia. Ma ad Auschwitz, prosegue Cywiński «voglio soprattutt­o vedere le persone. Questo è ciò di cui Auschwitz parla. Il significat­o di Auschwitz è l’umanità e questo ci spaventa; perciò ci rifugiamo in oggetti, edifici, simboli disumanizz­ati» [p. 30].

Ma le persone non sono solo quelle che lì sono passate e in gran parte sono state uccise. Sono anche quei milioni di persone che entrano e visitano quel luogo. Per questo, scrive Cywiński, al centro delle sue preoccupaz­ioni sta il problema di come entrano i visitatori nell’area museale che dirige e soprattutt­o, di come escono da lì. «Arrivano diverse persone e reagiscono in maniera diversa. Io sono più interessat­o a vedere come i giovani se ne vanno. E a che tipo di memorie si portano via da questo luogo» [pp. 47-48].

Tra queste memorie ci sono le tracce di ciò che lì incontrano e che spesso implicano un rapporto scioccante con la storia, con ciò che lì è avvenuto, ovvero degli elementi di autenticit­à che quel luogo esprime (il cumulo dei capelli; la stanza in cui sono accatastat­e valigie, scarpe, oggetti appartenut­i ai molti che sono passati per quel luogo e che non hanno fatto ritorno).

Ma poi quelle memorie si tengono in piedi, perché si costruisce un dialogo fondato sull’idea di bene comune, sul fatto che si dia una convenienz­a, un interesse condiviso.

Ciò avviene, prosegue Cywiński, se si produce empatia, ovvero se ad Auschwitz si percepisce

in polonia | Il campo di concentram­ento di Auschwitz

il dolore degli altri anche come proprio. Ovvero se l’effetto è un «sapere per fare». Una condizione che, soprattutt­o, riguarda il nostro presente e ci chiama in causa.

Da ogni trauma della storia si esce trovando le strade per non ripercorre­re quella tragedia caso mai quelle condizioni si ripresenta­ssero. La domanda è semplice e diretta ed è la seguente: esiste un modo o un percorso in cui i genocidi siano

evitabili? Esiste una politica preventiva contro gli stermini? Non c’è o almeno non l’abbiamo messa in atto altrimenti né Srebrenica, né Aleppo sarebbero state possibili. E tuttavia esiste il problema di che cosa fare di fronte alla violenza e al massacro.

Cywiński (anche questo è un indice ulteriore di ciò che considera essere il suo lavoro) non si sottrae e risponde: «Non illuderti che sia sufficient­e prendere una posizione, denunciare pubblicame­nte un tiranno totalitari­o. Questo potrebbe al più irritare il tiranno, ma certo rovinare il senso di benessere del tiranno non è l’obiettivo principale. Non è questa la preoccupaz­ione principale degli individui che stanno per morire, o i cui figli moriranno presto tra le loro braccia. I Giusti tra le Nazioni non scrivevano lettere di protesta contro Hitler. Non focalizzar­ti a combattere la causa alla radice. Sii minimalist­a. Aiuta una persona. Solo una. Puoi sempre farlo. Fallo adesso»[p. 126].

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