Il dolore di Fatina S ed E delle figlie
«Un giorno la kapò ci fece mettere in fila per fare l’appello e una delle prigioniere si mosse. La soldatessa iniziò a frustrare ferocemente su tutta la fila - era fuori di sè, sembrava una belva feroce -, nei nostri sguardi arrivò il terrore e sui nostri volti il dolore. Eravamo scheletriche e senza capelli, si vedevano solo gli occhi che erano spalancati dalla paura. La soldatessa frustò tutti indistintamente, e mentre tentavamo di piegarci per proteggerci e evitare il colpo, la punta della frusta mi colpì in un occhio. Il dolore era atroce, in pochi minuti mi venne un occhio grande e nero. ... Mi sembrò che tutte queste baracche e questi campi avessero un’unica funzione finale: farci morire». Biografia di una vita in più di Fatina Sed, sopravvissuta ad Auschwitz, morta nel ’96, è una testimonianza particolare, rinvenuta in un cassetto dalla nipote Fabiana, che l’ha curata assieme ad Anna Segre, lasciandola fedele al testo nato dall’urgenza di raccontare ai giovani e protestare per la grazia che s’intendeva dare a Herbert Klapper, l’assassino delle Fosse Ardeatine.
La sua particolarità sta nella sua essenza: l’autrice aveva 12 anni quando fu deportata, ma già a 8 anni, per via delle leggi razziali, fu espulsa dalla scuola. Il racconto è dunque semplice, ma proprio per questo potente e disarmante. D’un fiato si seguo-
no le immagini della fame che torce le budella, della cattiveria delle altre donne necessaria per sopravvivere, del voler lasciarsi morire dinanzi al cadavere della sorella Angelica, dopo aver realizzato che la madre e la sorellina più piccola Emma erano già state gassate, della parvenza di umanità di una tedesca che la sposta in una baracca meno spietata fino, via via, all’arrivo dei russi e al sogno della libertà.
L’altra componente importante della biografia è il rapporto con le tre figlie, nate dal matrimonio con Pacifico Di Porto (Fatina si sposò giovanissima, nel ’46) e l’impossibilità di condividere un passato così doloroso. Ne parlano le curatrici nella seconda parte del libro, dedicando brevi interviste a ciascuna di loro: Emma, Stella ed Enrica, oggi adulte. «La paura è sbagliata, non si deve aver paura, la paura non esiste» insegna alle ragazze Fatina Sed. Ma di notte gli incubi ossessionano la donna, tormentata dal terrore di perderle, e allo stesso tempo il presente incalza - a cominciare banalmente anche solo dalle domande dei compagni di classe delle bambine sulla mamma - e tutto questo segna nel tempo le vite di Emma, Stella ed Enrica. Che hanno percepito Fatina come una madre distaccata, a volte dura, hanno patito « l’inammissibile della paura » e manifestato forme di malessere rimaste irrisolte.
Il tema delle ricadute della deportazione sulle seconde generazioni, già trattato da Helena Janeczek nel forte Lezioni di tenebra, è forse non ancora sufficientemente esplorato. Come viene sottolineato qui, i figli dei sopravvissuti «non hanno fatto domande per non ferire il genitore già molto provato, perché hanno temuto di esporlo a flashback insopportabili, ma anche perché, nei primi anni successivi al ritorno dai campi, gli stessi sopravvissuti evitavano l’argomento. Avevano paura di non essere creduti, non riuscivano, non potevano».
Questa biografia ha più d’un motivo per essere letta, da diversi pubblici. Per conoscere ciò di cui non si sa mai abbastanza, per onorare la Memoria, e anche per chi di quella Memoria è erede diretto e l’ha subìta.