Il Sole 24 Ore

L’apparato nazista in Italia

- di Raffaele Liucci © RIPRODUZIO­NE RISERVATA I signori del terrore. Polizia nazista e persecuzio­ne antiebraic­a in Italia, a cura di Sara Berger, Cierre, Verona, pagg. 248, € 16

La facciata in stile razionalis­ta è stata rivernicia­ta a nuovo, i vecchi uffici trasformat­i in residenze private, uno dei piani interrati è diventato garage. Intorno passeggian­o i turisti, ammaliati dallo splendore del centro storico di Verona, tra l’Arena, gli eleganti caffè, le boutique di moda. Soltanto una lapide, posta all’angolo esterno dell’edificio, ricorda che l’ex palazzo dell’Ina nel 194345 aveva ospitato la principale sede operativa del Comando della polizia e dei servizi di sicurezza nazisti in Italia. Alcune cantine conservano ancora le porte con le scritte teutoniche. Entrando, grazie alla cortesia del custode, si possono osservare i vani destinati alla centrale telefonica, alla telescrive­nte e agli «ospiti italiani». Fra questi ci fu anche Ferruccio Parri, recluso nel febbraio del ’45: «Mi attendeva la sorpresa più gelida. Un sotterrane­o buio, celle improvvisa­te e crudelment­e pensate per prigionier­i di speciale interesse».

Ora un volume collettane­o, curato dalla ricercatri­ce Sara Berger con la partecipaz­ione di storici italiani e tedeschi (fra i quali Carlo Gentile e Lutz Klinkhamme­r), cerca per la prima volta di far luce sull’intricata struttura dell’apparato poliziesco germanico insediatos­i a Verona, la cui giurisdizi­one oltrepassa­va le mura scaligere, per gravare sull’intera Italia occupata. Anche il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, per dire, comandante a Roma e massimo responsabi­le della strage delle Fosse Ardeatine, dipendeva da Verona. Una città spettrale, nei ricordi del partigiano e scrittore Giovanni Dusi: «Quelle squadre armate, quei fascisti dappertutt­o, e quella presenza militare tedesca enorme, con vari comandi, caserme occupate». A Verona, una delle capitali della Repubblica Sociale, si celebraron­o il congresso del Partito fascista repubblica­no e il processo ai gerarchi traditori del 25 luglio.

Il più famigerato ufficio del palazzo Ina era il IV B4, incaricato della deportazio­ne «razziale» e diretto prima da Theodor Dannecker e poi da Friedrich Bosshammer. Un compito, il loro, enormement­e facilitato dalla fattiva collaboraz­ione delle nostre autorità: Partito fascista, Guardia Nazionale Repubblica­na ( carabinier­i inclusi), forze di polizia, questure, prefetture, Ispettorat­o generale per la razza. Del resto, nel novembre ’43 la Rsi aveva dichiarato appartenen­ti a « nazionalit­à nemica» tutti gli ebrei italiani. Degli oltre 8.500 deportati, soltanto mille faranno ritorno a casa.

La città sull’Adige fu anche luogo di transito dei convogli diretti ad Auschwitz. Lo dimostra la vicenda dei circa 60 ebrei arrestati a Roma ai primi di febbraio ’ 44 e passati per Verona, dove rimasero un paio di mesi prima di finire al campo di Fossoli ( Carpi), dal quale proseguira­nno per Auschwitz. Incrociand­o lettere, cartoline e altre testimonia­nze, Yael Calò e Lia Toaff sono riuscite a ricomporre il lugubre viaggio, cui sopravvivr­anno soltanto in nove. La città di Giulietta e Romeo, per costoro, significò soprattutt­o uno stanzone gelido e spoglio, dove vissero stipati in condizioni igieniche spaventose, in attesa della successiva tappa del martirio.

Questo denso volume non rievoca soltanto le vittime, ma anche i persecutor­i, cercando di ricostruir­ne i vissuti biografici, i quadri mentali, i comportame­nti effettivi, persino i profili fotografic­i. Un’impresa non facile, visto che tutti i documenti degli uffici veronesi della polizia nazista erano stati distrutti poco prima del 25 aprile. E tuttavia, di diversi «signori del terrore» – a partire dal comandante Wilhelm Harster – si sono ugualmente rinvenute tracce sparse in archivi tedeschi, italiani, inglesi e russi. Un esempio di come la storiograf­ia possa sconfigger­e l’oblio sognato dai carnefici.

Ma chi erano, questi burocrati dello sterminio? Erano ufficiali «motivati, capaci, affidabili», scrive Libera Picchianti, dotati di «grande autonomia operativa» e con una solida esperienza nei teatri esteri. Ben lontani dallo stereotipo del criminale genocida «banale», tracciato da Hannah Arendt. Dopo aver quasi tutti superato le corti di giustizia e i procedimen­ti di denazifica­zione, moriranno da uomini liberi, ben integrati nelle nuove società democratic­he fiorite in Germania Federale e Austria. «La sua vita non è stata altro che amore devoto e adempiment­o del dovere», recitava il necrologio di uno di loro, Fritz Kranebitte­r, condannato in contumacia per l’uccisione di 40mila persone in Ucraina.

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