La post-verità antisemita
Secondo Sartre l’odio per gli ebrei si nutre dei nazionalismi nati dalla reazione anti-moderna e anti-illuminista
Settant’anni fa uscivano le Riflessioni sulla Questione ebraica di Jean-Paul Sartre, scritte dopo la “scoperta” della dimensione dello sterminio degli ebrei d’Europa. Ha ancora qualcosa da dirci questo libretto? Mossa da questa domanda l’Università di Gerusalemme ha promosso (il 18 e 20 dicembre scorso) una Conferenza I nternazionale che ha riunito studiosi di diversi Paesi e promosso un dialogo di eccezionale importanza sul saggio di Sartre e la figura dell’ebreo nella cultura europea.
Nel 1946, in tutta Europa era in corso una radicale epurazione dei collaboratori dell’occupazione nazista e, in Francia, dei sostenitori del regime di Vichy. Sartre, che era membro della commissione epurativa del Consiglio Nazionale degli Scrittori, era persuaso che «l’impegno» dello scrittore dovesse tendere alla «creazione e trasformazione permanente» della società che era uscita dalla guerra e dal fascismo. Questo “engagement” era anzi un «obbligo esistenziale». Ma molti degli scrittori che Sartre epurava, negli anni Trenta avevano condiviso con l’antifascismo socialista e comunista atteggiamenti “non conformistici”, come per esempio le simpatie per il corporativismo, le illusioni tecnocratiche, le polemiche antipolitiche tradotte in un sostanziale pessimismo nei confronti della lentezza e dell’inefficienza delle democrazie (temi, come si vede, molto attuali). Lo stesso Sartre, allievo di Martin Heidegger, non era stato certo immune dallo spirito irrazionalistico e anti-liberale degli anni Trenta. Ebbene, la conoscenza dello sterminio gli offrì il destro per credere di poter chiudere i conti con quel passato collaborazionismo degli intellettuali: con la tradizione europea che aveva generato i fascisti e gli antisemiti, e con il rapporto della storia europea con quella ebraica. Sartre ricondusse la genealogia dello sterminio degli ebrei d’Europa alla catastrofe della sua stessa cultura.
La domanda che uno storico dovrebbe
| Jean-Paul Sartre nel 1948. Le sue «Riflessioni sulla Questione ebraica» uscirono due anni prima
farsi è se ci si debba limitare a una lettura storica del libro di Sartre. Del resto, la questione ebraica sta oltre il contesto dello sterminio novencentesco, e lo stesso Sartre la lega direttamente alla questione dell’antisemitismo come « concezione del mondo » e perfino «passione» e odio inesauribile. È l’antisemita che crea l’ebreo, sostiene Sartre, proponendo un’interpretazione fenomenologica e storica insieme dell’antisemitismo. L’ebreo di Sartre, ha scritto Jonathan Judaken, è «l’uomo condannato a esser ciò che non è, e a non essere ciò che è»; la rappresentazione dell’uomo alienato, della condizione umana nella società capitalistica. Questa lettura esistenziale induce Sartre a sganciare l’odio antiebraico dalla tradizione cristiana ( di origine medievale) per radicarlo nella modernità e nell’economia di mercato. Così la passione antisemita si fa il motore che spiega la crisi europea e ne suggerisce la soluzione: per ricostruire la società nazionale lacerata dai conflitti sociali occorre svelare il complotto ebraico dei banchieri e dei finanzieri che genera la speculazione capitalista. L’antisemitismo diventa il paradigma di ogni forma di nazionalismo – e di populismo o sovranismo, come si direbbe oggi – in caccia di un capro espiatorio che spieghi la crisi e l’insicurezza attraverso un pericolo immaginario.
Sartre arrivò però solo sulla soglia di una lettura storica dell’antisemitismo come tradizione incastonata nella storia cristiana, dunque d’Europa. Non comprese pienamente il corso inaugurato nel Settecento, con l’avvio del processo di emancipazione politica e la conquista dei diritti; un evento che diede un nuovo significato dello stereotipo medievale dell’ebreo usuraio trasformandolo nel simbolo della società di mercato e della speculazione. Oggi, si può dimostrare con dovizia di prove documentali che questo è il tratto che unisce i rivoli delle polemiche anti-illuministiche a quelle contro la «feudalità finanziaria giudaica», e che hanno ingrossato il fiume del pensiero reazionario cattolico e del socialismo nazionale antisemita, servendosi di strategie che oggi chiameremmo di post-verità, di falsificazione di documenti e uso strumentale della storia e della pubblicistica. Pensiamo alla «feudalità finanziaria giudaica» forgiata da Louis de Bonald, all’attacco del socialista Toussenel contro i banchieri Rotschild, al movimento dei Cristiano Sociali viennesi, fino allo stereotipo del complotto della finanza ebraica nel discorso pronunciato nel settembre 1938, a Trieste, da Benito Mussolini.
Dopo la Rivoluzione francese e l’integrazione degli ebrei nel corpo della nazione come cittadini eguali, si assiste a un muta- mento fondamentale: l’«anticapitalismo antiebraico » diventa parte di una nuova polemica, quella contro lo Stato di diritto e la libertà di cittadinanza. L’ostilità sociale e religiosa contro gli ebrei si innesta in quella politica; l’attacco contro l’economia di mercato e i malvagi capitalisti si lega al disegno di restaurare un ordine nazionale che deve espellere dal suo corpo i traditori, gli ebrei, che l’emancipazione aveva incluso. Sono questi i semi del populismo nazionalista e “sociale” in cerca di nuovi capri espiatori.
Il testo di Sartre contiene dunque una intuizione illuminante ma anche una incomprensione fuorviante. Egli i ntuì il nesso terribile tra economia moderna, modernità politica e antisemitismo (gli stereotipi evitavano la fatica di decifrare la modernità); spiegò chiaramente il fallimento dell’assimilazione, ma non comprese la specificità e la complessità della «questione ebraica», il fatto che la dimensione religiosa sia ineliminabile e che la conquista dei diritti universali ed egualitaria non risolve il problema se non riesce a prevedere il rispetto delle differenze, di questa differenza e di altre che possono alimentare nuovi capri espiatori. A Sartre sfuggì che la dimensione religiosa della civiltà ebraica è costitutiva della nostra cultura, un elemento ineliminabile dell’Europa, al pari della tradizione classica e di quella cristiana. uando sento la parola cultura metto mano alla pistola». Dei tanti slogan del Secolo breve è questo, forse, il più rivelatorio. Commentandolo, Boris Groys ha spiegato come certe dinamiche del potere culturale mutuino la volontà di potenza del potere tout court: quello politico. Il fatto che tutti oggi ricordino questa frase fa sì – secondo il critico d’arte e filosofo russo trapiantato in Germania – che Goebbels, scrittore fallito, avrebbe infine ottenuto il successo cui tanto aspirava.
Un successo paradossale, perché quello slogan è apocrifo (chi lo prese da un dramma di Hans Johst fu Baldur von Schirach). Paradossale quanto emblematico: perché il «mito Goebbels» è secondo solo a quello di Hitler, in termini di persistenza nella cultura, o meglio nelle idées reçues, di oggi. Proprio alla decostruzione di tale mito è volta la monumentale biografia che a Goebbels ha dedicato Peter Longerich. Che documenta come il Ministro per la Propaganda non facesse parte, almeno in termini politici, del «cerchio magico» del dittatore. Il crescere del ruolo di Goebbels si dovette solo al venire meno degli altri gerarchi: cosicché, unico a non aver abbandonato Hitler, finì per succedergli come Cancelliere. Ma solo per un giorno: il 30 aprile 1945, nel bunker di Berlino, Hitler si suicidò insieme a Eva Braun, e il giorno dopo lo stesso fece Goebbels con la moglie Magda (non prima di aver avvelenato i sei figli).
Dal punto di vista storiografico, il lavoro di Longerich è criticabile. La sua prospettiva resta eccessivamente legata, infatti, alla massa sterminata dei diari di Goebbels. Che se da un lato confermano la diagnosi di una personalità patologicamente narcisistica (anche per reazione alla deformità al piede destro, dovuta a una sindrome neurologica infantile), dall’altro testimoniano una tendenza psicotica a credere alle proprie stesse menzogne. Era «un uomo che difficilmente riusciva a distinguere tra finzione e realtà», sintetizza Longerich: come mostra il suo diario quando presenta come autentico, nel ’31, un attentato che la polizia dimostrò subito, invece, organizzato da lui stesso. Così per le sue più grandi «bufale»: l’incendio del Reichstag del febbraio del ’33, attribuito ai comunisti, e l’attacco alla stazione radio di Gleiwitz, il 1° settembre 1939, che fornì il pretesto per l’aggressione alla Polonia.
Ma tendendo a non registrare quanto ecceda i diari di Goebbels, Longerich non solo non analizza le tecniche della sua propaganda, ma neppure si interroga su certi episodi sui quali lo stesso Goebbels chiude gli occhi (come quando nel ’34 annota di aver scoperto una verità «terribile» su Magda, probabilmente alludendo al fatto che suo vero padre era un commerciante ebreo: storia già nota confermata lo scorso agosto, con una ricerca anagrafica, dal quotidiano tedesco «Bild»). Del resto la cecità volontaria ( Die Blendung, come nel ’35 aveva intitolato Elias Canetti il suo romanzo, da noi tradotto come Autodafè) è dispositivo tipico dei regimi totalitari: quello che consente, alle innumerevoli rotelle del mostruoso ingranaggio, di farlo funzionare. Nel bel documentario austriaco A German Life ascoltiamo la testimonianza di una delle segretarie di Goebbels, Brunhilde Pomsel, ancora oggi in vita (le riprese vennero effettuate quando aveva 103 anni: la camera indugia a lungo sulla sua pelle, rugosa come quella di un animale preistorico). Malgrado le contrite frasi di circostanza, è evidente il compiacimento – più di settant’anni dopo – di aver fatto parte di un’élite («era bello lavorare lì, molto bello»). Qualcosa di molto gratificante, certo: a patto di non interrogarsi sulle conseguenze di quel lavoro così «bello». Quando al Ministero della Propaganda arriva il fascicolo sulla Rosa Bianca (il gruppo di studenti cristiani, oppositori del regime, che vennero decapitati nel febbraio del ’43), e il suo superiore le raccomanda di archiviarlo senza aprirlo, Brunhilde ci pensa su un istante, poi esegue l’ordine: «lo trovai molto nobile da parte mia», commenta oggi.
Dove però il libro di Longerich è prezioso è nella sua prima parte: che ripercorre, di Goebbels, la fallita vocazione letteraria. Di questa passione giovanile non si sapeva molto; del mito nazi fa parte integrante, semmai, quella di pittore di Hitler; già nel luglio del ’44 scriveva Alberto Savinio, in uno degli apologhi di Sorte dell’Europa: «L’idea che mosse la Germania al presente conflitto va giudicata più che altro come un fenomeno di “pompierismo”». Non è mancato chi (come Éric-Emmanuel Schmitt) ha immaginato la sorte dell’Europa, appunto, se quel giorno del 1907 l’Accademia Imperiale di Vienna avesse ammesso fra i propri allievi il futuro Führer.
Ma se Hitler non superò mai lo stadio di dilettante, Goebbels pubblicò nel ’29 un romanzo autobiografico, Michael, e mise in scena diversi drammi. Uno dei suoi slogan (autentici), citato anche in A German Life, suona «Della mia gioventù, della mia gioventù, una canzone risuona ancora»: ed è verosimile che a quel tempo, appunto, rispondessero le campagne a venire contro l’«arte degenerata», gli indirizzi agli scrittori in senso völkisch e anti-intellettualistico, e il bando comminato nel ’36 alla critica («supremo organo giudiziario dell’arte nell’epoca del dominio artistico internazional-ebraico»). Ma è riduttivo interpretare le biografie di personaggi come Hitler e Goebbels come rivalsa su chi aveva loro tarpato le ali in gioventù: come qualche tempo fa tendeva a fare un pamphlet – pure intelligente e documentato – di Errico Buonanno, La sindrome di Nerone. Non si tratta della «conquista del mondo» come «ripiego, per così dire, di seconda classe»: che consegnerebbe il mito nazi alla meschinità individuale e all’aberrazione psichica, come si fa per sbarazzarsi della questione che esso invece continua a rappresentare, per noi, adesso e a venire.
Chi ne ha spiegato meglio le dinamiche sono stati Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy. In un breve, folgorante saggio che nel 1980 commentava l’opus magnum di HansJürgen Syberberg, Hitler, un film dalla Germania, spiegarono come nella sua essenza «il mito nazi […] sia la costruzione, la formazione e la produzione del popolo tedesco nell’opera d’arte, mediante l’opera d’arte, come un’opera d’arte». Rispondendo a Wilhelm Furtwängler che protestava contro l’epurazione, dai suoi Berliner Philharmoniker, degli strumentisti ebrei, Goebbels dichiarò nel ’33 che «la politica è, essa pure, un’arte» (ma già nel suo romanzo aveva scritto che «la politica è l’arte plastica dello Stato»).
All’origine di questa trasvalutazione delle categorie estetiche in ambito politico (per usare, pour cause, il lessico di Nietzsche) c’è il precedente rappresentato da Wagner. Che conta, nel mito nazi, non tanto per le simbologie pagane care ad Alfred Rosenberg, il teorico dell’antisemitismo, o per le proiezioni estetizzanti di Hitler, quanto per la strenua volontà di trasporre sul piano «reale» – costruendo il «tempio» di Bayreuth – la propria opera d’arte totale. Come dice Syberberg, il Gesamtkunstwerk è «un progetto politico», e la tormentosa marionetta del suo Hitler proclama la Germania, appunto, «opera d’arte totale» (il libro che diede sulfurea fama a Boris Groys s’intitolava a sua volta Lo stalinismo, ovvero l’opera d’arte totale). L’incubo della storia non è la rivalsa nei confronti del sogno dell’arte: è la sua riproposizione pantografata in misura abnorme, planetaria. E allora è il caso di rivolgersi alla saggezza «greca», al «sur-civismo» di Savinio, quando concludeva: «Nulla è così lontano dall’arte come la politica, ossia il governo e l’amministrazione dei popoli. La politica esclude la genialità e a maggior ragione la pazzia». «Politica dell’immortalità. Arte e desiderio nel tardo capitalismo», del 2002 e appena uscito da Mimesis (traduzione di Eleonora Florio, prefazione di Paolo Perticari, pp. 188, € 18), riporta conversazioni di Boris Groys con Thomas Knoefel. Dello stesso Groys «Lo stalinismo, ovvero L’opera d’arte totale» uscì nel ’92 da Garzanti. «Goebbels. Una biografia» di Peter Longerich (traduzione di Valentina Tortelli, pp. 890, € 44,00), del 2010, è uscito da Einaudi lo scorso ottobre. L’edizione integrale dei diari di Goebbels è stata curata da Elke Fröhlich in 32 volumi usciti fra il ’93 e il 2008 (per un totale di 16.800 pagine) «A German Life» – di Christian Krönes, Roland Schrotthofer, Florian Weigensamer e Olaf S. Müller – è uscito in Austria lo scorso ottobre e sarà nelle sale italiane dal 27 gennaio (anche in dvd da Feltrinelli). Alberto Savinio pubblica «Pompierismo» su «Il Tempo» il 15 luglio 1944, mentre l’ultima citazione è da «Politica e pazzia», del successivo 5 agosto; «Sorte dell’Europa» esce nel ’45 da Bompiani (se ne veda l’edizione fornita per Adelphi, nel 2014, da Paola Italia). Di Éric-Emmanuel Schmitt è citato «La parte dell’altro», del 2001, tradotto da E/O nel 2007. Di Errico Buonanno «La sindrome di Nerone» (Rizzoli 2013). Di Philippe Lacoue-Labarthe (scomparso nel 2007) e Jean-Luc Nancy «Il mito nazi», relazione a un convegno del 1980, fu pubblicato a sé nel ’91 e tradotto l’anno seguente dal melangolo. Le citazioni dalla lettera aperta di Goebbels a Furtwängler e da Syberberg provengono da Lacoue-Labarthe, «La finzione del politico» (il melangolo 1991). «Hitler, ein film aus Deutschland» è un film di Hans-Jürgen Syberberg del ’77: lo si trova interamente su YouTube. A pagina 43 Cristina Battocletti recensisce il film « Austerlitz » , fuori concorso alla 73esima mostra del cinema di Venezia