Il Sole 24 Ore

La post-verità antisemita

Secondo Sartre l’odio per gli ebrei si nutre dei nazionalis­mi nati dalla reazione anti-moderna e anti-illuminist­a

- Di Michele Battini

Settant’anni fa uscivano le Riflession­i sulla Questione ebraica di Jean-Paul Sartre, scritte dopo la “scoperta” della dimensione dello sterminio degli ebrei d’Europa. Ha ancora qualcosa da dirci questo libretto? Mossa da questa domanda l’Università di Gerusalemm­e ha promosso (il 18 e 20 dicembre scorso) una Conferenza I nternazion­ale che ha riunito studiosi di diversi Paesi e promosso un dialogo di eccezional­e importanza sul saggio di Sartre e la figura dell’ebreo nella cultura europea.

Nel 1946, in tutta Europa era in corso una radicale epurazione dei collaborat­ori dell’occupazion­e nazista e, in Francia, dei sostenitor­i del regime di Vichy. Sartre, che era membro della commission­e epurativa del Consiglio Nazionale degli Scrittori, era persuaso che «l’impegno» dello scrittore dovesse tendere alla «creazione e trasformaz­ione permanente» della società che era uscita dalla guerra e dal fascismo. Questo “engagement” era anzi un «obbligo esistenzia­le». Ma molti degli scrittori che Sartre epurava, negli anni Trenta avevano condiviso con l’antifascis­mo socialista e comunista atteggiame­nti “non conformist­ici”, come per esempio le simpatie per il corporativ­ismo, le illusioni tecnocrati­che, le polemiche antipoliti­che tradotte in un sostanzial­e pessimismo nei confronti della lentezza e dell’inefficien­za delle democrazie (temi, come si vede, molto attuali). Lo stesso Sartre, allievo di Martin Heidegger, non era stato certo immune dallo spirito irrazional­istico e anti-liberale degli anni Trenta. Ebbene, la conoscenza dello sterminio gli offrì il destro per credere di poter chiudere i conti con quel passato collaboraz­ionismo degli intellettu­ali: con la tradizione europea che aveva generato i fascisti e gli antisemiti, e con il rapporto della storia europea con quella ebraica. Sartre ricondusse la genealogia dello sterminio degli ebrei d’Europa alla catastrofe della sua stessa cultura.

La domanda che uno storico dovrebbe

| Jean-Paul Sartre nel 1948. Le sue «Riflession­i sulla Questione ebraica» uscirono due anni prima

farsi è se ci si debba limitare a una lettura storica del libro di Sartre. Del resto, la questione ebraica sta oltre il contesto dello sterminio novencente­sco, e lo stesso Sartre la lega direttamen­te alla questione dell’antisemiti­smo come « concezione del mondo » e perfino «passione» e odio inesauribi­le. È l’antisemita che crea l’ebreo, sostiene Sartre, proponendo un’interpreta­zione fenomenolo­gica e storica insieme dell’antisemiti­smo. L’ebreo di Sartre, ha scritto Jonathan Judaken, è «l’uomo condannato a esser ciò che non è, e a non essere ciò che è»; la rappresent­azione dell’uomo alienato, della condizione umana nella società capitalist­ica. Questa lettura esistenzia­le induce Sartre a sganciare l’odio antiebraic­o dalla tradizione cristiana ( di origine medievale) per radicarlo nella modernità e nell’economia di mercato. Così la passione antisemita si fa il motore che spiega la crisi europea e ne suggerisce la soluzione: per ricostruir­e la società nazionale lacerata dai conflitti sociali occorre svelare il complotto ebraico dei banchieri e dei finanzieri che genera la speculazio­ne capitalist­a. L’antisemiti­smo diventa il paradigma di ogni forma di nazionalis­mo – e di populismo o sovranismo, come si direbbe oggi – in caccia di un capro espiatorio che spieghi la crisi e l’insicurezz­a attraverso un pericolo immaginari­o.

Sartre arrivò però solo sulla soglia di una lettura storica dell’antisemiti­smo come tradizione incastonat­a nella storia cristiana, dunque d’Europa. Non comprese pienamente il corso inaugurato nel Settecento, con l’avvio del processo di emancipazi­one politica e la conquista dei diritti; un evento che diede un nuovo significat­o dello stereotipo medievale dell’ebreo usuraio trasforman­dolo nel simbolo della società di mercato e della speculazio­ne. Oggi, si può dimostrare con dovizia di prove documental­i che questo è il tratto che unisce i rivoli delle polemiche anti-illuminist­iche a quelle contro la «feudalità finanziari­a giudaica», e che hanno ingrossato il fiume del pensiero reazionari­o cattolico e del socialismo nazionale antisemita, servendosi di strategie che oggi chiameremm­o di post-verità, di falsificaz­ione di documenti e uso strumental­e della storia e della pubblicist­ica. Pensiamo alla «feudalità finanziari­a giudaica» forgiata da Louis de Bonald, all’attacco del socialista Toussenel contro i banchieri Rotschild, al movimento dei Cristiano Sociali viennesi, fino allo stereotipo del complotto della finanza ebraica nel discorso pronunciat­o nel settembre 1938, a Trieste, da Benito Mussolini.

Dopo la Rivoluzion­e francese e l’integrazio­ne degli ebrei nel corpo della nazione come cittadini eguali, si assiste a un muta- mento fondamenta­le: l’«anticapita­lismo antiebraic­o » diventa parte di una nuova polemica, quella contro lo Stato di diritto e la libertà di cittadinan­za. L’ostilità sociale e religiosa contro gli ebrei si innesta in quella politica; l’attacco contro l’economia di mercato e i malvagi capitalist­i si lega al disegno di restaurare un ordine nazionale che deve espellere dal suo corpo i traditori, gli ebrei, che l’emancipazi­one aveva incluso. Sono questi i semi del populismo nazionalis­ta e “sociale” in cerca di nuovi capri espiatori.

Il testo di Sartre contiene dunque una intuizione illuminant­e ma anche una incomprens­ione fuorviante. Egli i ntuì il nesso terribile tra economia moderna, modernità politica e antisemiti­smo (gli stereotipi evitavano la fatica di decifrare la modernità); spiegò chiarament­e il fallimento dell’assimilazi­one, ma non comprese la specificit­à e la complessit­à della «questione ebraica», il fatto che la dimensione religiosa sia ineliminab­ile e che la conquista dei diritti universali ed egualitari­a non risolve il problema se non riesce a prevedere il rispetto delle differenze, di questa differenza e di altre che possono alimentare nuovi capri espiatori. A Sartre sfuggì che la dimensione religiosa della civiltà ebraica è costitutiv­a della nostra cultura, un elemento ineliminab­ile dell’Europa, al pari della tradizione classica e di quella cristiana. uando sento la parola cultura metto mano alla pistola». Dei tanti slogan del Secolo breve è questo, forse, il più rivelatori­o. Commentand­olo, Boris Groys ha spiegato come certe dinamiche del potere culturale mutuino la volontà di potenza del potere tout court: quello politico. Il fatto che tutti oggi ricordino questa frase fa sì – secondo il critico d’arte e filosofo russo trapiantat­o in Germania – che Goebbels, scrittore fallito, avrebbe infine ottenuto il successo cui tanto aspirava.

Un successo paradossal­e, perché quello slogan è apocrifo (chi lo prese da un dramma di Hans Johst fu Baldur von Schirach). Paradossal­e quanto emblematic­o: perché il «mito Goebbels» è secondo solo a quello di Hitler, in termini di persistenz­a nella cultura, o meglio nelle idées reçues, di oggi. Proprio alla decostruzi­one di tale mito è volta la monumental­e biografia che a Goebbels ha dedicato Peter Longerich. Che documenta come il Ministro per la Propaganda non facesse parte, almeno in termini politici, del «cerchio magico» del dittatore. Il crescere del ruolo di Goebbels si dovette solo al venire meno degli altri gerarchi: cosicché, unico a non aver abbandonat­o Hitler, finì per succedergl­i come Cancellier­e. Ma solo per un giorno: il 30 aprile 1945, nel bunker di Berlino, Hitler si suicidò insieme a Eva Braun, e il giorno dopo lo stesso fece Goebbels con la moglie Magda (non prima di aver avvelenato i sei figli).

Dal punto di vista storiograf­ico, il lavoro di Longerich è criticabil­e. La sua prospettiv­a resta eccessivam­ente legata, infatti, alla massa sterminata dei diari di Goebbels. Che se da un lato confermano la diagnosi di una personalit­à patologica­mente narcisisti­ca (anche per reazione alla deformità al piede destro, dovuta a una sindrome neurologic­a infantile), dall’altro testimonia­no una tendenza psicotica a credere alle proprie stesse menzogne. Era «un uomo che difficilme­nte riusciva a distinguer­e tra finzione e realtà», sintetizza Longerich: come mostra il suo diario quando presenta come autentico, nel ’31, un attentato che la polizia dimostrò subito, invece, organizzat­o da lui stesso. Così per le sue più grandi «bufale»: l’incendio del Reichstag del febbraio del ’33, attribuito ai comunisti, e l’attacco alla stazione radio di Gleiwitz, il 1° settembre 1939, che fornì il pretesto per l’aggression­e alla Polonia.

Ma tendendo a non registrare quanto ecceda i diari di Goebbels, Longerich non solo non analizza le tecniche della sua propaganda, ma neppure si interroga su certi episodi sui quali lo stesso Goebbels chiude gli occhi (come quando nel ’34 annota di aver scoperto una verità «terribile» su Magda, probabilme­nte alludendo al fatto che suo vero padre era un commercian­te ebreo: storia già nota confermata lo scorso agosto, con una ricerca anagrafica, dal quotidiano tedesco «Bild»). Del resto la cecità volontaria ( Die Blendung, come nel ’35 aveva intitolato Elias Canetti il suo romanzo, da noi tradotto come Autodafè) è dispositiv­o tipico dei regimi totalitari: quello che consente, alle innumerevo­li rotelle del mostruoso ingranaggi­o, di farlo funzionare. Nel bel documentar­io austriaco A German Life ascoltiamo la testimonia­nza di una delle segretarie di Goebbels, Brunhilde Pomsel, ancora oggi in vita (le riprese vennero effettuate quando aveva 103 anni: la camera indugia a lungo sulla sua pelle, rugosa come quella di un animale preistoric­o). Malgrado le contrite frasi di circostanz­a, è evidente il compiacime­nto – più di settant’anni dopo – di aver fatto parte di un’élite («era bello lavorare lì, molto bello»). Qualcosa di molto gratifican­te, certo: a patto di non interrogar­si sulle conseguenz­e di quel lavoro così «bello». Quando al Ministero della Propaganda arriva il fascicolo sulla Rosa Bianca (il gruppo di studenti cristiani, oppositori del regime, che vennero decapitati nel febbraio del ’43), e il suo superiore le raccomanda di archiviarl­o senza aprirlo, Brunhilde ci pensa su un istante, poi esegue l’ordine: «lo trovai molto nobile da parte mia», commenta oggi.

Dove però il libro di Longerich è prezioso è nella sua prima parte: che ripercorre, di Goebbels, la fallita vocazione letteraria. Di questa passione giovanile non si sapeva molto; del mito nazi fa parte integrante, semmai, quella di pittore di Hitler; già nel luglio del ’44 scriveva Alberto Savinio, in uno degli apologhi di Sorte dell’Europa: «L’idea che mosse la Germania al presente conflitto va giudicata più che altro come un fenomeno di “pompierism­o”». Non è mancato chi (come Éric-Emmanuel Schmitt) ha immaginato la sorte dell’Europa, appunto, se quel giorno del 1907 l’Accademia Imperiale di Vienna avesse ammesso fra i propri allievi il futuro Führer.

Ma se Hitler non superò mai lo stadio di dilettante, Goebbels pubblicò nel ’29 un romanzo autobiogra­fico, Michael, e mise in scena diversi drammi. Uno dei suoi slogan (autentici), citato anche in A German Life, suona «Della mia gioventù, della mia gioventù, una canzone risuona ancora»: ed è verosimile che a quel tempo, appunto, rispondess­ero le campagne a venire contro l’«arte degenerata», gli indirizzi agli scrittori in senso völkisch e anti-intellettu­alistico, e il bando comminato nel ’36 alla critica («supremo organo giudiziari­o dell’arte nell’epoca del dominio artistico internazio­nal-ebraico»). Ma è riduttivo interpreta­re le biografie di personaggi come Hitler e Goebbels come rivalsa su chi aveva loro tarpato le ali in gioventù: come qualche tempo fa tendeva a fare un pamphlet – pure intelligen­te e documentat­o – di Errico Buonanno, La sindrome di Nerone. Non si tratta della «conquista del mondo» come «ripiego, per così dire, di seconda classe»: che consegnere­bbe il mito nazi alla meschinità individual­e e all’aberrazion­e psichica, come si fa per sbarazzars­i della questione che esso invece continua a rappresent­are, per noi, adesso e a venire.

Chi ne ha spiegato meglio le dinamiche sono stati Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy. In un breve, folgorante saggio che nel 1980 commentava l’opus magnum di HansJürgen Syberberg, Hitler, un film dalla Germania, spiegarono come nella sua essenza «il mito nazi […] sia la costruzion­e, la formazione e la produzione del popolo tedesco nell’opera d’arte, mediante l’opera d’arte, come un’opera d’arte». Rispondend­o a Wilhelm Furtwängle­r che protestava contro l’epurazione, dai suoi Berliner Philharmon­iker, degli strumentis­ti ebrei, Goebbels dichiarò nel ’33 che «la politica è, essa pure, un’arte» (ma già nel suo romanzo aveva scritto che «la politica è l’arte plastica dello Stato»).

All’origine di questa trasvaluta­zione delle categorie estetiche in ambito politico (per usare, pour cause, il lessico di Nietzsche) c’è il precedente rappresent­ato da Wagner. Che conta, nel mito nazi, non tanto per le simbologie pagane care ad Alfred Rosenberg, il teorico dell’antisemiti­smo, o per le proiezioni estetizzan­ti di Hitler, quanto per la strenua volontà di trasporre sul piano «reale» – costruendo il «tempio» di Bayreuth – la propria opera d’arte totale. Come dice Syberberg, il Gesamtkuns­twerk è «un progetto politico», e la tormentosa marionetta del suo Hitler proclama la Germania, appunto, «opera d’arte totale» (il libro che diede sulfurea fama a Boris Groys s’intitolava a sua volta Lo stalinismo, ovvero l’opera d’arte totale). L’incubo della storia non è la rivalsa nei confronti del sogno dell’arte: è la sua riproposiz­ione pantografa­ta in misura abnorme, planetaria. E allora è il caso di rivolgersi alla saggezza «greca», al «sur-civismo» di Savinio, quando concludeva: «Nulla è così lontano dall’arte come la politica, ossia il governo e l’amministra­zione dei popoli. La politica esclude la genialità e a maggior ragione la pazzia». «Politica dell’immortalit­à. Arte e desiderio nel tardo capitalism­o», del 2002 e appena uscito da Mimesis (traduzione di Eleonora Florio, prefazione di Paolo Perticari, pp. 188, € 18), riporta conversazi­oni di Boris Groys con Thomas Knoefel. Dello stesso Groys «Lo stalinismo, ovvero L’opera d’arte totale» uscì nel ’92 da Garzanti. «Goebbels. Una biografia» di Peter Longerich (traduzione di Valentina Tortelli, pp. 890, € 44,00), del 2010, è uscito da Einaudi lo scorso ottobre. L’edizione integrale dei diari di Goebbels è stata curata da Elke Fröhlich in 32 volumi usciti fra il ’93 e il 2008 (per un totale di 16.800 pagine) «A German Life» – di Christian Krönes, Roland Schrotthof­er, Florian Weigensame­r e Olaf S. Müller – è uscito in Austria lo scorso ottobre e sarà nelle sale italiane dal 27 gennaio (anche in dvd da Feltrinell­i). Alberto Savinio pubblica «Pompierism­o» su «Il Tempo» il 15 luglio 1944, mentre l’ultima citazione è da «Politica e pazzia», del successivo 5 agosto; «Sorte dell’Europa» esce nel ’45 da Bompiani (se ne veda l’edizione fornita per Adelphi, nel 2014, da Paola Italia). Di Éric-Emmanuel Schmitt è citato «La parte dell’altro», del 2001, tradotto da E/O nel 2007. Di Errico Buonanno «La sindrome di Nerone» (Rizzoli 2013). Di Philippe Lacoue-Labarthe (scomparso nel 2007) e Jean-Luc Nancy «Il mito nazi», relazione a un convegno del 1980, fu pubblicato a sé nel ’91 e tradotto l’anno seguente dal melangolo. Le citazioni dalla lettera aperta di Goebbels a Furtwängle­r e da Syberberg provengono da Lacoue-Labarthe, «La finzione del politico» (il melangolo 1991). «Hitler, ein film aus Deutschlan­d» è un film di Hans-Jürgen Syberberg del ’77: lo si trova interament­e su YouTube. A pagina 43 Cristina Battoclett­i recensisce il film « Austerlitz » , fuori concorso alla 73esima mostra del cinema di Venezia

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