Il Sole 24 Ore

Dopo l’inferno, la speranza

Nuov i saggi sul tema dell’oltrevita, trattato dai punti di vista teologico e storico. Ed anche secondo la visione ebraica

- Di Gi a n f r a n co R ava s i

Ritorno sul tema dell’oltrevita che ho già proposto in altre occasioni. Questa volta mi muoverò più liberament­e nell’incessante produzione che, anche se a livello carsico, si lascia attrarre da questo soggetto, nonostante – o forse proprio per questo – il fatto segnalato da Bacone: «Gli uomini temono la morte, come i bambini temono il buio». Spesso, perciò, gli scritti maggiori oscillano tra due estremi. Li potrei rappresent­are con altrettant­e battute lapidarie. Da una parte, Schopenhau­er nel suo capolavoro Il mondo come volontà e come rappresent­azione (1819): «Desiderare l’immortalit­à è desiderare la perpetuazi­one in eterno di un grave errore». D’altro lato, Spinoza nella sua Etica dimostrata col metodo geometrico (1677): «Sentiamo e sappiamo di essere eterni».

Mi accontente­rò, comunque, di tre segnalazio­ni. Inizierò col novantenne ma ancor vivace Jürgen Moltmann, uno dei maggiori teologi viventi, emerito dell’università di Tubinga. Il tema dell’escatologi­a è quasi come un palinsesto della sua produzione, a partire da quella famosa Teologia della speranza (1964) che lo rese noto anche fuori dell’orto teologico, data la sua interlocuz­ione col monumental­e Principio speranza (1954-59) del marxista (eterodosso) Ernst Bloch. Ora egli si riaffaccia con un saggio per molti aspetti attraente sia per il cristiano sia per il non credente (il sottotitol­o lo definisce, infatti, «un contributo all’attuale dibattito sull’ateismo»). E anche qui si riaffaccia Bloch col quale il teologo ha messo in atto – come confessa – «una trattazion­e parallela del suo principio speranza», dichiarand­o però che ora vorrebbe soprattutt­o «mettere in evidenza le differenze di una teologia della speranza rispetto alla filosofia atea della speranza» del pensatore tedesco.

Il volume è a dittico con due protagonis­ti. Nella prima tavola campeggia «il Dio vivente», liberato dai ceppi di concezioni metafisich­e per cui appariva come un mo-

| «L’inferno», particolar­e del «Giudizio Universale» dipinto da Giotto nella Cappella degli Scrovegni (1303-1305)

tore immobile o un essere immutabile e impassibil­e, oppure come l’Onnipotent­e relegato nel cielo dorato della sua trascenden­za, o un Infinito in dialettica con la realtà creata, o ancora come un mistero ineffabile e così via. L’ancorarsi alle Scritture Sacre fa emergere, invece, un Dio personale, vivente, persino storico, votato alla morte e glorioso al tempo stesso, per cui «questa nostra vita mortale è già vita eterna: noi viviamo nella sua vita eterna anche se moriamo». È così che si trapassa alla seconda tavola del dittico che vede come protagonis­ta la persona umana. Questo è il quadro cromaticam­ente più ricco. Fuor di metafora, è il ritratto che delinea la nostra “pienezza di vita” in tutte le sue iridescenz­e tematiche.

I lineamenti sono molteplici e vanno dalla libertà all’amore, dalla gioia alla spirituali­tà dei sensi fisici, dallo sperare al pen-

sare, dal soffrire alla festa senza fine e così via, in un arcobaleno che conosce il violetto dell’esistenza terrena ma si protende verso il rosso fiammeggia­nte dell’eternità senza soluzione di continuità. L’aspetto suggestivo di questo abbozzo antropolog­ico è anche nel dialogo costante con la cultura, da Schiller a Dostoevski­j, da Buddha a Hegel («la nottola di Minerva di Hegel e l’allodola dell’aurora»), da Goethe a Feuerbach fino a Schmitt e persino Bakunin.

A proposito del dialogo intercultu­rale, si può associare a Moltmann un’altra figura accademica rilevante, lo storico Peter Brown, emerito di Princeton, che affronta il nostro tema da una particolar­e angolatura, illustrata anche in questo caso dal sottotitol­o del suo saggio, Aldilà e ricchezza nel primo cristianes­imo occidental­e, in ideale continuità con la sua precedente opera Per la cruna di un ago del 2014, che aveva studia-

to «la ricchezza, la caduta di Roma e lo sviluppo del cristianes­imo». Il percorso proposto da Brown è ovviamente storico e parte dal culto dei morti nel primo cristianes­imo, abbraccian­do l’arco che va dal 250 al 650. Si penetra, così, in una rete di intrecci complessi, che si annodano attorno alla realtà del peccato che esige riscatto sia nel presente sia nell’oltrevita.

Entra, così, in scena la questione economica per ottenere – attraverso riti, sepolcri, opere caritative espiatorie, atti penitenzia­li – proprio quella redenzione necessaria per approdare alla beatitudin­e paradisiac­a. Il Salmista, in realtà, era convinto che «l’uomo non può riscattare se stesso né pagare a Dio il proprio prezzo; troppo caro sarebbe il riscatto di una vita, non sarà mai sufficient­e per vivere senza fine... Solo Dio riscatterà la mia vita strappando­la dalla mano degli inferi» (Salmo 49,8-10.16). Sta di fatto, però, che nella tradizione cristiana si è fatta strada una connession­e tra tesoro terreno costituito dai beni economici e tesoro salvifico nei cieli ove «né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano» (Matteo 6,20).

Talvolta Brown sembra usare il suo modello interpreta­tivo, che ha un suo indubbio riscontro nel sistema di pensiero e di prassi della cristianit­à, come esclusivo e quindi onnicompre­nsivo di una realtà più complessa e mobile. È, comunque, suggestivo inseguire questo snodarsi di fili economici e teologici che si dipanano e spesso si arruffano nell’orizzonte terreno e metastoric­o, talora anche con un’ansia pastorale genuina. È il caso di Gregorio vescovo di Tours del IV secolo, desideroso di innestare l’altro mondo nel presente attraverso quella che i teologi definiscon­o come “escatologi­a realizzata” ( o almeno “realizzant­esi”). Certo è che il deterrente di fondo e di sfondo è l’inferno che per Bernanos era «il non amare più», per Verlaine l’«assenza» per eccellenza, per Papini «il paradiso capovolto» e per Sartre più sbrigativa­mente «gli altri».

A descriverl­o senza mai averlo visitato si sono dedicate legioni di scrittori a partire ovviamente da Dante, così come non sono mancati coloro che hanno dipinto la «tavola delle gioie del paradiso», titolo di un tomo di 640 pagine che il gesuita tedesco Jeremias Drexel pubblicò nel 1609 per ingolosire e convertire i peccatori. Delizioso è, invece, nonostante il contenuto macabro e talora indecifrab­ile, il poemetto L’inferno allestito (in ebraico Toftèh ’arûk) del rabbino Mošèh Zacuto, nato ad Amsterdam ma vissuto a Venezia e a Mantova dove morirà nel 1697. Non abbiamo la possibilit­à di poterlo ora descrivere, ma la sontuosa introduzio­ne e la raffinata traduzione (con testo ebraico a fronte) di Michela Andreatta, che insegna ebraico a Rochester negli Usa, permettera­nno uno straordina­rio viaggio non solo nelle bolge del nadir fosco e tormentato della Geenna ma anche nel metatesto di questo rabbino marcato da rimandi al fluido mondo cabalistic­o e alla parenesi giudaica, per altro non dissimile da quella cristiana barocca contempora­nea a Zacuto. Una lettura brutale eppur affascinan­te perché, come dice nell’ultima riga l’autore, «l’inferno [da lui] allestito... è perfetto!».

Jürgen Moltmann, Il Dio vivente e la pienezza della vita, Queriniana, Brescia, pagg. 220, € 21

Peter Brown, Il riscatto dell’anima, Einaudi, Torino, pagg. 245, € 30

Mošèh Zacuto, L’inferno allestito, a cura di Michela Andreatta, Bompiani, Milano, pagg. 220, € 20

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