Fierismo con fierezza
Storia ed evoluzione delle fiere nel mondo, nelle quali mercato e cultura convivono con ricadute positive sulle città ospitanti
Cos’ha portato il fierismo al suo successo, tale per cui l’appassionato d’arte viaggia spesso meno per mostre e musei che per visitare una, tre, dieci fiere all’anno? Un primo aspetto è facile da decifrare: siamo di fronte a una nuova forma della committenza, più brutale di quella dei mecenati antichi ma a quella molto apparentata. Dall’inizio degli anni Ottanta, quando gli yuppies si preparavano a diventare tycoon alla Gordon Gekko e a ricevere in case piene di quadri, nel mercato dell’arte si sono palesati protagonisti molto professionali che prendevano spunto, sviluppandoli, dai primi modelli di mercante smagato o di gallerista complice degli artisti, da Ambroise Vollard a Joseph Duveen, da Henry Kanhwailer a Peggy Guggenhe-
im. Dopo la nascita delle prime grandi mostre che erano anche sedi di vendita, quali furono i Salon di Parigi e la stessa Biennale di Venezia, il sistema dell’arte – secondo un’espressione ormai corrente coniata nel 1964 da Lawrence Halloway - ha visto nascere galleristi più attivi ed elastici, con strutture simili a imprese che comprendevano e comprendono sempre più architetture fantastiche, archivi, impiegati di rango capaci di dare luogo a mostre che rivaleggiano con quelle di carattere museale.
In tutto questo, l’arte contemporanea è divenuta un ambito importante per la creazione di ciò che è stato definito Distinction da Pierre Bourdieu: la voglia di esprimere il proprio gusto e l’appartenenza a un’elite piccola piccola – quella che oggi si ripresenta con prepotenza, come le analisi di Tomas Pikketty confermano - non soltanto attraverso tazzine di porcellana o lampadari di cristallo. Ciò ha dato luogo a un’espansione dei sistemi di collezionismo legati alla borghesia e al suo bisogno di investire in beni mobili; il fenomeno non è diverso da quello che ha condotto alla nascita delle fiere tout court, che inizialmente favorivano l’incontro di prodotti, produttori e compratori in ambito agricolo o proto industriale, a partire da quella della Champagne nel Trecento. L’esposizione di “cose belle” sul sagrato davanti alla prima Borsa, nell’Anversa vivace del Seicento prima del suo tracollo, ha imboccato la strada delle arti.
In un assetto economico fondato sul capitale, le fiere d’arte e il loro crescere sottolineano come gli ambiti del sapere e del-
l’arte si siano fatti anche merce: espressioni come “industria della cultura” (Adorno e Horkheimer), “società dello spettacolo” (Guy Debord), “Uomo a una dimensione” (Herbert Marcuse) hanno sondato il fenomeno già entro gli anni settanta. Al contempo studiosi di vari campi – critici, economisti, antropologi, sociologi oltre che filosofi – hanno cercato di comprendere quali dinamiche, nel contesto recente, presiedano a conferire credibilità ad alcune opere rispetto ad altre. Il modo in cui si attribuisce non solo un valore economico, ma lo statuto stesso di opera d’arte a un oggetto, ha condotto alle riflessioni illuminanti di Arthur Danto, George Dickie, Nigel Warburton tra gli altri, per le quali un manufatto sembrerebbe potersi candidare alla definizione di opera solo quando venga presentato come tale dal suo autore, e in seguito accreditato da un novero di pionieri del giudizio tra cui innanzitutto i pari, i curatori, i galleristi, i collezionisti e poi il pubblico degli appassionati. La fiera, più di una mostra, è il luogo ideale perché tutte queste categorie si incontrino; ciò ne fa dunque un luogo in cui si decretano valori simbolici oltre che economici. Anche gli artisti e i critici, benché spesso non lo vogliano ammettere, frequentano fiere ovunque, per aggiornarsi e per capire chi può produrre, promuovere e variamente aiutare il loro lavoro: un artista non vive senza vendere e un curatore spesso si deve fare aiutare, nell’allestire una mostra o arricchire la collezione di un museo, dai galleristi o dai collezionisti privati più ambiziosi, che
possono incrementare un microbudget.
Recentemente hanno gettato sguardi articolati su questi temi autori come Noah Horowitz, Olaf Velthius, Maria Lind, Isabelle Graw. Il punto che fa discutere maggiormente è che, nelle parole di Stefano Baia Curioni, «solo un piccolo gruppo di gallerie ha il potere di fare salire sistematicamente (spesso attraverso un avveduto, paziente processo di promozione) la posizione degli artisti nell’opinione del pubblico»: ciò significa che non ogni gallerista funziona da motore commercial-culturale, e che quindi una fiera d’arte, diversamente da quanto accade in altri settori, per rendersi credibile non può privilegiare la quantità degli espositori rispetto alla loro qualità. La prima fiera in senso proprio, del resto, ebbe luogo nel 1967 a Colonia, organizzata da Hein Stuenke e Rudolf Zwirner, con soli diciotto espositori, al punto da fare nascere immediatamente una controfiera dalle maglie più larghe. Gli artisti più impegnati protestarono, ma ci si può chiedere se fu per idealismo o perché la loro stessa alleanza con il mercato diventava più chiara: Joseph Beuys, tra gli avversari più veementi del nuovo fenomeno, non impedì che il gallerista René Block vendesse al primo KUNSTMARKT una sua opera per una cifra stellare.
Un secondo motivo per cui ha sempre più piede ciò che il critico Paco Barragàn ha definito « the art fair age » , e che Francesco Garutti ha raccontato nel recente volume Fairland (Koenig & Mousse 2014), sta nell’articolazione sempre maggiore che questi eventi hanno assunto. La rincorsa che ha portato alla nascita di ArtBasel, Fiac a Parigi, Arco a Madrid, Frieze a Londra e così via, molte di queste con satelliti in Asia o America, è parallela all’abbandono della formula «stand con dipinti e sculture», magari divisi in area del moderno e area del contemporaneo: nemmeno a Basilea si vede più una distinzione tanto rigida, dal momento che primo e secondo mercato, cioè quello della proposta iniziale e quello della rivendita di opere che hanno alle spalle vari cambi di proprietà, si sono andati mescolando. La fiera ospita inoltre forme d’arte che scuotono forzatamente la formastand: per esempio, nell’ultima edizione di Frieze c’era uno spazio ad hoc per le performance; inoltre ha chiuso la manifestazione una bella lezione in cui Coco Fusco, vestita da scimmia, discettava sul pensiero della filosofa Donna Haraway, che ha introdotto l’evento via skype. Da tempo ci sono poi sezioni di opere gigantesche, come quelle che si trovano a Basilea nella sezione Unlimited; infine gli spazi di dibattito, nati nei convegni di ARCO, si sono moltiplicati fino a essere festival della teoria sull’arte. Bookshop, wine bar, vip lounge, cene placé e feste underground sono il corollario di un banchetto che non è solo business.
La conseguenza di questo secondo punto è duplice. Anzitutto si assiste a qualche ribellione interna di regole consolidate, per esempio quella secondo cui la “messa in pianta” è gerarchica, cioè si assegnano alle gallerie più prestigiose ( o che comperano più metri quadri) le postazioni considerate privilegiate. Inoltre, alcune fiere hanno cercato edifici che rendano meno asettica la presentazione: non è un mistero che da quando la Fiac di Parigi si è conquistata il fascinoso Grand Palais, con la sua volta di vetri, è più amata e più visitata. La stessa geometria degli spazi è messa in crisi dai più coraggiosi, che vi costruiscono spazi per video o per “opere esperienziali” che richiedono aree chiuse e accoglienti. Le controfiere – che per inciso sottolineano il prestigio della fiera a cui si affiancano – spesso hanno luogo in fabbriche abbandonate, alberghi, siti che già di per sé sono una riscoperta e un sasso lanciato contro l’egida del cubo bianco.
In secondo luogo, la fiera d’arte diventa uno dei momenti salienti della vita di un territorio. È vero per le grandi metropoli, dove i musei, le gallerie, gli spazi non profit, gli atelier d’artista si aprono e mostrano i loro fiori all’occhiello, come quegli investimenti in pensiero e denaro che sono le maratone inventate da Hans Ulrich Obrist alla Serpentine Gallery di Londra. Ma anche nel caso di città meno ricche di offerta, anzi, probabilmente proprio in quelle, la fiera diventa un magnete che catalizza energie, obbliga molti a mettersi d’accordo per fare un calendario comune, sollecita iniziative collaterali. È insomma uno dei modi in cui, anno dopo anno, la cultura del presente prende piede e invade strade e palazzi anche se per un grumo di giorni. Per noi italiani, infine, è un dispositivo da non sottovalutare per dare un tocco di futuro alle città d’arte, spesso vittime di un passato che, paradossalmente, per sopravvivere chiede di sapere guardare avanti.