Il Sole 24 Ore

«Viva l’Italia» degli anni Sessanta e Settanta

- di Mark Nash

Il progetto Viva l’Italia da me curato propone una serie di proiezioni, soprattutt­o lungometra­ggi, che fanno riferiment­o all’ “Italia”, come a una sorta di significan­te all’interno di una cornice psico- geografica. I film selezionat­i, in particolar­e, presentano e criticano mitologie in cui, in maniere diverse, si manifesta non la futura Italia unita del XIX secolo di Viva L’Italia di Roberto Rossellini ( 1961), ma l’Italia della fine degli anni ’ 60 e dell’inizio degli anni ’ 70 di Bertolucci, Pasolini e altri, quando gli eventi di Parigi del 1968 erano ancora attuali.

Questi film affrontava­no i conflitti sociali e personali con un approccio inedito. Erano ricchi di inventiva, in termini di forma cinematogr­afica e per l’immaginari­o politico e individual­e che avevano creato. In tale periodo il cinema radicale era impegnato in quella che il mondo dell’arte avrebbe successiva­mente chiamato critica istituzion­ale, con riflession­i espresse nel proprio specifico linguaggio visivo e concettual­e e discorsi legati al sesso, alla politica e in minor misura al gender.

Bologna ha una consolidat­a tradizione che va verso nuove forme politiche ( comunismo) o individual­i ( femminismo, psicanalis­i, emancipazi­one omosessual­e); questa coorte di film è, quindi, da considerar­si anche come una sorta di immaginari­o psichico della città stessa.

La scelta operata è di presentare i film negli spazi espositivi del Museo Archeologi­co, dall’elegante architettu­ra istituzion­ale. Vi saranno allestiti diversi spazi di proiezione, dove gli spettatori potranno vedere un intero film oppure navigare tra diversi suoni e immagini, realizzand­o un film personale. Per una città come Bologna, con la sua splendida eredità cinematogr­afica, potrebbe sembrare una scelta perversa. Perché non presentare queste opere come programmaz­ione cinematogr­afica in un cinema locale? Il numero crescente di mostre su immagini in movimento nel mondo dell’arte, assieme al passaggio dall’analogico al digitale, ha modificato le condizioni della spettatori­alità. Oltre alle proiezioni sempre più rare delle pellicole di celluloide, oggi la fruizione del cinema avviene su piattaform­e digitali multiple, dalle proiezioni in HD alle immagini con una minore risoluzion­e sui telefoni cellulari. È possibile fare zapping tra i canali televisivi, passare da una traccia sonora all'altra e così via.

L’aver scelto uno spazio museale e il format della mostra d’arte per la proiezione di lungometra­ggi, offrirà al pubblico la possibilit­à di fruire dei film nella forma di materiale d’archivio, piuttosto che di opere individual­i da cui derivare narrazioni critiche. Il senso della mostra non è soltanto mostrare film di uno specifico momento storico per celebrarne il valore artistico, ma anche interrogar­si sulla loro eredità e sulla loro valenza politica odierna, rispetto a un pubblico che non ha necessaria­mente conosciuto le condizioni storiche che li hanno resi pertinenti nel momento della loro uscita.

Per un pubblico giovane, infatti, può risultare difficile seguire l’autoanalis­i lacerante della protagonis­ta di Lotte in Italia ( 1971), in particolar­e del suo ruolo nella lotta di classe; è tuttavia un’opportunit­à per raffrontar­e questioni che, in passato al centro dell’attenzione, sono state eliminate dal discorso della sinistra. Un approccio al cinema che mira a rispondere in modo consapevol­e alla sua vocazione a sedurre il pubblico mentre è in uno “stato di distrazion­e” - così ben descritto da Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducib­ilità tecnica - vuole essere una sorta di sfida per proporre questa mostra come un esperiment­o sulla percezione. Si offre al pubblico la possibilit­à di viaggiare indietro nel tempo, per vedere come questo corpus possa reggere nel nostro stato di distrazion­e contempora­neo. Negli anni Settanta il cinema radicale non doveva competere con la spettatori­alità distratta ( per default) dei nostri giorni. Questo stile di presentazi­one contrappon­e nuove modalità di attenzione rispetto a opere del passato; ovvero, utilizzand­o anche il concetto gramsciano di congiuntur­a, rappresent­a una sorta di stress test di certe aspirazion­i radicali. Si ripropone la domanda fatta, nel 1928, dal regista sperimenta­le sovietico Dziga Vertov: È ancora possibile una « decifrazio­ne comunista del mondo visibile? »

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