«Viva l’Italia» degli anni Sessanta e Settanta
Il progetto Viva l’Italia da me curato propone una serie di proiezioni, soprattutto lungometraggi, che fanno riferimento all’ “Italia”, come a una sorta di significante all’interno di una cornice psico- geografica. I film selezionati, in particolare, presentano e criticano mitologie in cui, in maniere diverse, si manifesta non la futura Italia unita del XIX secolo di Viva L’Italia di Roberto Rossellini ( 1961), ma l’Italia della fine degli anni ’ 60 e dell’inizio degli anni ’ 70 di Bertolucci, Pasolini e altri, quando gli eventi di Parigi del 1968 erano ancora attuali.
Questi film affrontavano i conflitti sociali e personali con un approccio inedito. Erano ricchi di inventiva, in termini di forma cinematografica e per l’immaginario politico e individuale che avevano creato. In tale periodo il cinema radicale era impegnato in quella che il mondo dell’arte avrebbe successivamente chiamato critica istituzionale, con riflessioni espresse nel proprio specifico linguaggio visivo e concettuale e discorsi legati al sesso, alla politica e in minor misura al gender.
Bologna ha una consolidata tradizione che va verso nuove forme politiche ( comunismo) o individuali ( femminismo, psicanalisi, emancipazione omosessuale); questa coorte di film è, quindi, da considerarsi anche come una sorta di immaginario psichico della città stessa.
La scelta operata è di presentare i film negli spazi espositivi del Museo Archeologico, dall’elegante architettura istituzionale. Vi saranno allestiti diversi spazi di proiezione, dove gli spettatori potranno vedere un intero film oppure navigare tra diversi suoni e immagini, realizzando un film personale. Per una città come Bologna, con la sua splendida eredità cinematografica, potrebbe sembrare una scelta perversa. Perché non presentare queste opere come programmazione cinematografica in un cinema locale? Il numero crescente di mostre su immagini in movimento nel mondo dell’arte, assieme al passaggio dall’analogico al digitale, ha modificato le condizioni della spettatorialità. Oltre alle proiezioni sempre più rare delle pellicole di celluloide, oggi la fruizione del cinema avviene su piattaforme digitali multiple, dalle proiezioni in HD alle immagini con una minore risoluzione sui telefoni cellulari. È possibile fare zapping tra i canali televisivi, passare da una traccia sonora all'altra e così via.
L’aver scelto uno spazio museale e il format della mostra d’arte per la proiezione di lungometraggi, offrirà al pubblico la possibilità di fruire dei film nella forma di materiale d’archivio, piuttosto che di opere individuali da cui derivare narrazioni critiche. Il senso della mostra non è soltanto mostrare film di uno specifico momento storico per celebrarne il valore artistico, ma anche interrogarsi sulla loro eredità e sulla loro valenza politica odierna, rispetto a un pubblico che non ha necessariamente conosciuto le condizioni storiche che li hanno resi pertinenti nel momento della loro uscita.
Per un pubblico giovane, infatti, può risultare difficile seguire l’autoanalisi lacerante della protagonista di Lotte in Italia ( 1971), in particolare del suo ruolo nella lotta di classe; è tuttavia un’opportunità per raffrontare questioni che, in passato al centro dell’attenzione, sono state eliminate dal discorso della sinistra. Un approccio al cinema che mira a rispondere in modo consapevole alla sua vocazione a sedurre il pubblico mentre è in uno “stato di distrazione” - così ben descritto da Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica - vuole essere una sorta di sfida per proporre questa mostra come un esperimento sulla percezione. Si offre al pubblico la possibilità di viaggiare indietro nel tempo, per vedere come questo corpus possa reggere nel nostro stato di distrazione contemporaneo. Negli anni Settanta il cinema radicale non doveva competere con la spettatorialità distratta ( per default) dei nostri giorni. Questo stile di presentazione contrappone nuove modalità di attenzione rispetto a opere del passato; ovvero, utilizzando anche il concetto gramsciano di congiuntura, rappresenta una sorta di stress test di certe aspirazioni radicali. Si ripropone la domanda fatta, nel 1928, dal regista sperimentale sovietico Dziga Vertov: È ancora possibile una « decifrazione comunista del mondo visibile? »