Apprendista presidente
Difficile prevedere i l nuovo cor s o . Un libro inchiesta pieno di accuse che però non entrano nel merito delle idee del neoeletto
Aconclusione delle polemiche elettorali e in occasione dell’”Inauguration Day”, gli osservatori si sono chiesti che cosa farà il presidente Donald Trump e quale sarà davvero la sua politica interna e internazionale dopo le roboanti dichiarazioni ripetute negli ultimi mesi. L’incertezza sull’orientamento politico della nuova Amministrazione che ha drasticamente tagliato i ponti con il passato regna sovrana per cui, a oggi, si possono sollevare solo dubbi e interrogativi. Il neo-presidente praticherà il protezionismo antiglobalista i n economia e l’isolazionismo internazionale, oppure procederà caso per caso? Stringerà rapporti speciali con Putin, taglierà i ponti con l’Unione europea, e sfiderà apertamente la Cina, oppure modererà gli impulsi nazionalistici sposando una realpolitik come avevano fatto prima di lui Nixon e Kissinger? Adopererà la frusta anti-immigratoria e xenofoba che gli ha dato il consenso elettorale dei bianchi, o si convertirà alle regole multietniche e multireligiose della tradizione americana? Terrà fede alle promesse di una drastica riduzione delle tasse sulle società e sui redditi personali e rivedrà la politica di controllo del clima e delle energie fossili del suo predecessore, o si barcamenerà con un colpo al cerchio e un altro alla botte? In sostanza Trump sarà un presidente capace di sperimentare una nuova politica capace di resistere alla prova della realtà come fece Ronald Reagan, oppure cadrà sotto il peso degli scandali e degli imbrogli che hanno segnato la sua ascesa economica e massmediatica come pronosticano i suoi avversari?
Le previsioni sono tutte difficili perché il personaggio Trump è stato e continua a essere imprevedibile e privo di un team politico e culturale omogeneo che possa costituire una solida base per la sua Amministrazione. È perciò che si è approfondita quella cesura tra il gruppo della nuova presidenza e il passato istituzionale che fa sorgere dubbi sul
| Il 45° presidente degli Stati Uniti d’America, Donal Trump
futuro della democrazia americana. Il partito dei pessimisti resta ampio anche se cresce la schiera dei possibilisti che prudentemente stanno a guardare quel che in effetti accadrà. Nell’ampia gamma di opinioni divergenti si distingue quella decisamente negativa di David Cay Johnston, lo sperimentato giornalista investigativo premio Pulitzer che da trent’anni studia e analizza la storia di famiglia, la biografia personale, le svariate attività economiche e le ambigue relazioni del neo-presidente, materiale tutto condensato nel libro Donald Trump, pubblicato in Usa e Italia. «La campagna che si è conclusa con l’elezione è cominciata con l’inganno e la frode» - scrive il giornalista -, e la disonestà del candidato deriva da «uno schema che Trump ha sempre applicato nella carriera e nella vita privata» ragione per cui «la sua elezione pone sfide uniche e preoccupanti relative all’etica e alla sicurezza nazionale». Quando il nuovo inquilino della Casa Bianca viene descritto come «un grande narcisista dal carattere autoritario e dallo stile di imbroglione... con l’ossessione per i soldi, la ricchezza e le donne», e molteplici relazioni con criminali incluso il suo «socio in affari Alex Shnaider figura chiave della mafia russa», non si può fare a meno di interrogarsi se il libro-inchiesta sia stato compilato con pu-
re illazioni o, invece, contenga notizie accuratamente vagliate.
Dietro l’apparenza del personaggio leggero e stravagante, in realtà Trump nasconde la tempra dell’abile imprenditore di se stesso che, pur attraverso i pasticci dell’affarista, sa quel che vuole per raggiungere i traguardi di successo. Lo stesso debutto nella grande politica, apparentemente improvvisato, nasce da una lontana e accurata pianificazione tendente a coltivare il grande pubblico, innanzitutto con gli show televisivi come The Apprentice che ne hanno diffuso l’immagine popolare. Del resto, se così non fosse, non avrebbe potuto eliminare l’intero establishment repubblicano e poi conquistare la presidenza contro una candidata sperimentata come Hillary Clinton. È vero che il candidato repubblicano ha saputo toccare, sia pure inconsapevolmente, alcune vene profonde della tradizione americana, il nativismo contro gli immigrati, il populismo contro le élite, e l’orgoglio nazionalista di “America First”, ma questi riferimenti alla “pancia” della metà degli Americani “di terra” in contrapposizione agli Americani “d’acqua” delle coste atlantica e pacifica, non sarebbero bastati a dominare i complessi meccanismi del sistema presidenziale se non avessero colto le cause della pro- fonda crisi della classe media impoverita.
Le molteplici accuse del pugnace Johnston al neo-presidente per le sue attività passate e presenti non toccano il merito della politica trumpiana – per esempio gli annunciati progetti contro gli immigrati islamici e ispanici e la strategia antieuropea e pro-Brexit -, ma sono tutte rivolte ai suoi metodi truffaldini negli affari e ai legami loschi che avrebbero costituito la sostanza della sua carriera finanziaria. Tuttavia, se solo una parte delle rivelazioni del libro-inchiesta non solo si rivelasse vera ma fosse acquisita ufficialmente in sede istituzionale dal Congresso che ha una maggioranza critica di repubblicani, per il presidente potrebbero aprirsi giorni difficili. In tal caso si tratterà di comprendere se il tycoon che ha fin qui saputo superare tutti gli ostacoli che gli si sono presentati, sarà in grado di guidare il Paese dalla sala ovale trasferendo le sue doti di improvvisatore al governo della più grande potenza mondiale in un tempo di crisi. Oppure se il grande prestigiatore soccomberà sotto il peso degli scheletri nell’armadio che non potranno più essere occultati come pare sia accaduto fino a ora.
David Cay Johnston, Donald Trump, Einaudi, Torino, pagg. 224, € 14,50
Quanto la politica italiana sia inaridita, ripiegata nell’amministrazione di individualismi, e come tenda, cinicamente, a replicare vecchie prassi e a premiare le appartenenze, è noto. E mentre ogni confronto con l’emotività, la passione e i contenuti è programmaticamente superato dalla spregiudicatezza, e dall’uso utilitaristico cui la cosa pubblica è asservita, l’impopolarità del mestiere della politica pare irreversibile. L’affettuoso colloquio tra Luigi Manconi e Christian Raimo parte proprio dalla considerazione di quanto la professione politica contemporanea sia lontana dalle sue vocazioni: preferendo alla latitudine, alla prospettiva, l’amministrazione di agende dalle quali sono stati espunti gli ideali che dovrebbero definirla. Il libro si sviluppa su un orizzonte temporale che coincide con la biografia di Manconi, con una ricaduta lontanissima dalla retorica o dal reducismo, per arrivare a ragionare sui cortocircuiti imposti dalla banale inerzia dell’allineamento a idee nate in un indefinito e mitizzato altrove, dall’azzeramento dei contenuti e dalla loro sostituzione con un disperato e annaspante tatticismo. Le riflessioni, prive di compiacimento generazionale o di stanca rassegnazione, sono, invece, segnate da equilibrio di giudizio nella descrizione di un percorso di cui è inevitabile riconoscere il valore, e disegnano un racconto intimo, che però coincide con un pezzo di storia nazionale. Ripercorrendo le fasi complicate di battaglie civili combattute con determinazione e spesso interrotte, di conquiste a metà, di disuguaglianze inaccettabili da affrontare sempre in un domani la cui alba è rimandata sine die, Manconi individua con lucidità gli strappi logici con cui temi fondamentali per la convivenza civile sono rimossi da un discorso pubblico tutto teso a incipriarsi il naso, e a rappresentarsi proiettato verso un tautologico futuro dal quale non si può tornare indietro. Ciò che queste immagini dominanti lasciano sul tappeto, ciò che non sfiora le aule parlamentari sono questioni che qualificano la maturità di una società: l’affermazione dei diritti delle minoranze, le questioni del fine-vita, la preclusione a utilizzare gli strumenti messi a disposizione da leggi disattese, la proporzionalità della pena rispetto all’illecito, la sicurezza dei corpi consegnati allo Stato. Il rapporto conflittuale fra legalità e sanzione e tra certezza del diritto e flessibilità della pena è escluso dal ragionamento
È l’onda lunga dell’egemonia? È un po’ la tesi di Porro, e c’è del vero. Però i lettori sono consumatori come tutti gli altri e comprano i libri che desiderano. Se non viene loro il desiderio di capire di più che cosa sia la libertà economica, forse è anche un po’ colpa di chi prova a raccontarla e non riesce a uscire dalla trappola dei tecnicismi e dell’apparente freddezza dell’economia.
Il marxismo per anni ha monopolizzato il mercato delle idee. Ora che quel monopolio è caduto, tocca ai liberisti montare la loro bancarella, es porre la merce, imparare a farsi scegliere. Magari imparando dalla sapienza divulgativa di Nicola Porro.
Nicola Porro, La disuguaglianza fa bene. Manuale di sopravvivenza per un liberista, La nave di Teseo, Milano, pagg. 318, € 16,50
pubblico ed è generalmente sostituito da approssimazioni diventate il vero elemento unificante dell’arco costituzionale.
Una malinconica velatura pervade la descrizione della fatica con cui entra nel dibattito pubblico la tutela della dignità degli emigrati, che, ammesso che arrivino vivi sul suolo italiano, sono l’oggetto preferito di una politica vittima di pulsioni primordiali tradotte in discorsi legittimati dalla bassezza di registri linguistici dove il “politicamente scorretto” è la nuova casa delle canaglie. Del resto, che all’abbassamento del linguaggio e al superamento di ogni codice corrisponda un concreto degrado dei contenuti è esperienza quotidiana di ciascuno di noi. La polverizzazione delle strutture verticali e l’aggrapparsi al messianico intervento di un leader purché sia lasciano senza riferimenti le cause e le ragioni di una passione civile che, priva di rappresentanza, naufraga nella petizione di principio.
Quale pubblico possano avere le idee e le lotte descritte da Manconi è tristemente difficile da dire. Certamente il seguito politico che le caratterizza è a dir poco esiguo. La stessa vicenda politica dell’autore si confronta con la problematica collocazione nelle fila di forze politiche che solo par hasard sono state, o sono, disposte a sposarne i contenuti. E se storicamente esisteva un universo semantico di riferimenti cui le parti politiche si riferivano obbligatoriamente e grazie a cui le rappresentanze di interessi erano tutte tradotte in formule riconoscibili, oggi, con un’accelerazione sconosciuta e dalle conseguenze imprevedibili, una densa cortina fumogena avvolge i confini e rende labili le capacità di individuare quale sia il campo all’interno del quale vale la pena di provare ad affermare un’idea. Dietro la consapevolezza di appartenere a un mondo marginalizzato da una malintesa modernità, che moderna è solo nell’autorappresentazione, Manconi riserva ai brandelli del mondo cui è appartenuto un solidale distacco che non si trasforma mai in aperto biasimo. Eppure, se per molti versi la diffusa sordità nei confronti di battaglie per cui vale la pena di non arrendersi suggerirebbe sfiducia, quanto emerge dalla conversazione è il contrario: un fermo e civilissimo segnale di quanto sia necessario fare politica. E farla non per il potere fine a se stesso.
mauro.campus@unifi.it
Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica, a cura di Christian Raimo, Minimum Fax, Roma, pagg. 232, € 13