Il Sole 24 Ore

La «Voce» del cambiament­o

- Gennaro Sangiulian­o

remoto di Messina e Reggio Calabria che provocherà oltre 100mila morti. Quel sisma mise a nudo, con la lentezza e l’inadeguate­zza dei soccorsi, proprio le inefficien­ze dello Stato italiano che i vociani si proponevan­o di censurare.

Giovanni Amendola, uno dei collaborat­ori più attivi, aveva coniato il motto dell’iniziativa editoriale: «L’Italia come oggi è non ci piace», sintesi estrema di un’aspirazion­e al cambiament­o e dell’avversione verso la stagnazion­e di una certa “Italietta”, giudicata ferma, notabile e baronale. I suoi animatori erano tutti giovani ed erano arrivati a questa esperienza dopo aver animato altri fogli che si sono guadagnati un certo interesse, il «Leonardo» e il «Regno». Giuseppe Prezzolini motore organizzat­ivo dell’iniziativa aveva ventisei anni. Nei primi numeri, fra il dicembre del 1908 e il febbraio del 1909, erano apparse le firme di Ambrosini, Amendola, Anzilotti, Bastianell­i, Boine, Caroncini, Cecchi, Croce, Einaudi, Genti- le, Lombardo-Radice, Minocchi, Murri, Neal, Papini, Salvemini, Sella, Slataper e Soffici. Si aggiungera­nno altri nomi importanti: Sarfatti, Sbarbaro, Longhi, Omodeo, De Ruggiero.

«La Voce» non era stata una rivista letteraria, come il «Marzocco», anzi aveva rotto la tradizione di quei giornali estetizzan­ti, ripiegati sulla poesia e sull’arte, espression­e di un ceto culturale lontano dalle questioni sociali. Per la prima volta in Italia, si stava affacciand­o il «partito degli intellettu­ali», con alla base una comune matrice nell’idealismo, e dove il protagonis­ta è diverso sia dall’accademico che dal giornalist­a. Se c’era stato un modello, era stato quello dei «Cahiers de la Quinzaine» pubblicati a Parigi da Charles Péguy.

Il primo editoriale di Prezzolini era intitolato «La nostra promessa». «Che cosa promettiam­o?», si era domandato nell’incipit, proseguend­o: «Non promettiam­o di essere geni, di svisce- rare il mistero del mondo e di determinar­e il preciso menù delle azioni che occorrono per diventare grandi uomini. Ma promettiam­o di essere onesti e sinceri». I vociani hanno un progetto metapoliti­co: «...Crediamo che l’Italia abbia più bisogno di carattere, di sincerità, di apertezza, di serietà, che di intelligen­za e di spirito».

L’Italia del primo Novecento, nella quale s’immerge «La Voce» è scandita dall’ascesa prepotente di due nuove forze sociali: la borghesia imprendito­riale industrial­e, attiva al Nord, e di riflesso un vasto proletaria­to che si andava organizzan­do nei sindacati e nel Partito socialista. La penisola è un Paese di 33 milioni di abitanti, quasi un terzo vive di agricoltur­a e sempre un terzo è analfabeta.

Il successo della «Voce» era stato rapido, i suoi autori avevano trascinato in decine di polemiche i grandi giornali nazionali, erano riusciti anche a coniare nuove definizion­i come quella di «baroni universita­ri», quando Salvemini e Croce avevano ingaggiato una battaglia sui metodi familisti di assegnazio­ne delle cattedre. Prezzolini aveva già posto il tema di una frattura morale nel Paese, dove esistono due dimensioni «un’Italia fatta di fatti e una di parole, una d’azione, l’altra di dormivegli­a e di chiacchier­e; una dell’officina, l’altra del salotto, una che crea, l’altra che assorbe, una che cammina, l’altra che ingombra».

La scelta dei temi de «La Voce» era stata una novità per il panorama delle riviste dell’epoca, spesso attraverso numeri monografic­i il giornale si era occupato di riforma della scuola, di questione meridional­e, di ritardi nell’estensione della rete ferroviari­a, del peso della burocrazia, dello sviluppo industrial­e e dei dazi doganali. Quando erano state affrontate questioni più squisitame­nte culturali erano state proposte tendenze inedite come l’Impression­ismo nella pittura. Nel gennaio del 1910 Prezzolini e Soffici avevano organizzat­o a Firenze, sotto la bandiera de «La Voce», una mostra di pittori allora quasi sconosciut­i. Si era trattato di Degas, Monet, Van Gogh, Renoir, Cézanne, Gauguin, Pissarro, Matisse, Toulouse-Lautrec, Forain, e lo scultore Rosso.

Sulla stagione de «La Voce» più di tutto aveva aleggiato la questione nazionale, la denuncia della mancanza di un’identità forte condivisa, di un idem sentire, di uno spirito della nazione, tema a cui i vociani erano tornati spesso influenzat­i dalle idee di due autori eletti a loro maestri: Alfredo Oriani e Vilfredo Pareto.

Quando «La Voce» chiude ha ormai esauri- to la sua funzione e i suoi protagonis­ti stanno per intraprend­ere strade diverse. Il naturale sbocco di molti era stato l’interventi­smo, la partecipaz­ione alla Grande Guerra dell’Italia era apparsa come una spinta rigeneratr­ice, un’occasione, «un lavacro di sangue» capace di diventare un fatto dinamico nazionale. Molti di loro per atto di coerenza conosceran­no personalme­nte il fango e le trincee, alcuni moriranno.

Giovanni Papini in una lettera a Prezzolini così rifletterà sulla loro scelta: «Credo che tu abbia scelto la buona parte quando hai deciso di lavorare per la cultura, per il rinnovamen­to spirituale degli italiani. Tutto è qui. Manca la luce. Finché non avremo cambiato – per quanto è in noi – le anime degli uomini la storia futura sarà, sostanzial­mente, la ripetizion­e dell’antica: sviluppi e disfacimen­ti, salite e cadute, ambizioni contro ambizioni, classi contro classi, città che diventano imperi e imperi che decadono in colonie, aristocraz­ie di guerrieri che danno il posto ad aristocraz­ie di banchieri e queste ad aristocraz­ie di demagoghi, di capi di sindacati, di preti, di mercanti e via di seguito».

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