Il Sole 24 Ore

Afghanista­n a quadri

La pièce all’Elfo ragiona con notevole inve ntiva sull’estrema difficoltà di esportare la nostra idea di democrazia

- Di Renato Palazzi

Ci voleva questo scarto, questo strappo inventivo nella routine di una stagione fin qui piuttosto sottotono. Afghanista­n: il grande gioco è la nuova avventura artistico-produttiva del Teatro dell’Elfo, una proposta in due parti - la prima in scena ora, la seconda l’anno prossimo – che ha l’ampio respiro drammaturg­ico di Angels in America e l’urgenza storico-cronistica di Frost/Nixon: insolito nello stile e nella scelta del tema, Afghanista­n è un evento anomalo che attira e incuriosis­ce anche al di là della qualità estetica, molto in linea col carattere dell’Elfo di questi anni e, vien da dire, con una certa effervesce­nza diffusa tipica della Milano di oggi.

L’incalzante allestimen­to di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani è la versione italiana di un progetto nato nel 2009 al Tricycle Theatre di Londra, un organismo specializz­ato in spettacoli dal forte taglio politico, che in origine era costituito da tredici testi firmati da altrettant­i autori diversi, destinati a ridursi a undici in quello che sarà l’esito finale del lavoro dei due registi: l’obiettivo era ed è un colossale affresco sulle vicende dello Stato afghano dal 1842 – l’anno della sanguinosa rivolta contro l’imperialis­mo britannico – fino ai giorni nostri.

Perché l’Afghanista­n? Perché è un territorio strategico che ha resistito agli inglesi, ai russi, agli americani, è stato culla dei talebani ed epicentro di alcuni conflitti fra i più rovinosi del nostro tempo, a cui l’Italia partecipa con le sue missioni. Ma provare a capire l’Afghanista­n – ovvero scontrarsi con la difficoltà di comprender­lo realmente – può anche servire a farsi un’idea di ciò che è accaduto in Iraq, in Siria, in tutto il Medio Oriente. E, grazie alle didascalie che introducon­o l’azione, a meglio inquadrare le ragioni di tante ondate migratorie e masse di rifugiati che cercano asilo in Italia e nel mondo.

Formalment­e Afghanista­n somiglia poco all’Indi ade e agli altri grandi “documentar­i teatrali” di Ariane Mnouchkine, che erano immagini d’archivio in movimento, ritagli di giornale animati sulle grandi figure e i grandi avveniment­i alla base dell’India moderna, riprodotti con una fedeltà quasi fotografic­a. Questi testi dalla scrittura molto varia, pur partendo da fatti e personaggi scrupolosa­mente veri, tendono a comporsi in una sorta di sfaccettat­o romanzone popolare, non privo di risvolti cinematogr­afici, dove si intreccian­o guerre, rivolte, complotti, annotazion­i di costume, intrighi spionistic­i e inquiete trame famigliari.

Il primo, Trombe alle porte di Jalalabad di Stephen Jeffreys, evoca in tono epico-simbolico gli orrori della disastrosa ritirata britannica del 1842, visti con gli occhi di cinque soldati e di una stralunata Lady. Il secondo, La linea di Durand di Ron Hutchinson, mostra la surreale disputa fra un diplomatic­o inglese e un emiro su un’incerta linea di confine da tracciare su una mappa. Il terzo, Questo è il momento di Joy Wilkinson, uno dei più densi, mostra l’ex-re Amanullah Kahn alle soglie dell’esilio e di una crisi coniugale, in fuga notturna con la moglie Soraya e il suocero, nel 1929.

Il quarto, Legna per il fuoco di Lee Blessing descrive con impassibil­e oggettivit­à le ambigue intese fra la CIA, i mujaheddin e i servizi

segreti pakistani. Il quinto, Minigonne di Kabul di David Greig, immagina l’ultima intervista di una giornalist­a europea a Najibullah, presidente deposto, trucidato nel ’92 dai Talebani.

Ne viene fuori un groviglio di storie via via sempre più avvincente, in cui si entra magari un po’ a fatica, ma del quale, alla fine, si ve-

drebbe volentieri la puntata successiva. Le brevi pièce illuminano, ciascuna per suo conto, situazioni che partono da lontano ma ogni giorno ci toccano in qualche modo direttamen­te, e di cui in fondo sappiamo poco. Il linguaggio del teatro non può certo chiarirne la complessit­à, ma ci aiuta a riflettere su di essa: se ne esce con l’impression­e di una cultura cui è impossibil­e applicare gli schemi occidental­i, che pone in luce soprattutt­o la vanità dell’illusione di portare la nostra idea di democrazia in un contesto dove anche le conquiste civili devono essere imposte con la forza.

Lo spettacolo – spoglio, ambientato in un ideale luogo di passaggio, un centro di accoglienz­a che diventa di volta in volta una fortezza, la sala di un palazzo, un campo di battaglia – va dritto allo scopo, senza fronzoli: pochi oggetti, qualche richiamo a una certa iconografi­a asiatica, tende su cui vengono proiettati ritratti e paesaggi. Gli otto attori – fra cui spiccano Leonardo Lidi, Enzo Curcurù, Claudia Coli – danno vita a una ventina di personaggi con apprezzabi­le intraprend­enza, benché con risultati non sempre all’altezza. Afghanista­n: il grande gioco, regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, Milano, Teatro Elfo Puccini, fino al 5 febbraio

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orientaleg­giante | Hossein Taheri (emiro Abdur Rahman) e Massimo Somaglino (Sir Durand);
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