Afghanistan a quadri
La pièce all’Elfo ragiona con notevole inve ntiva sull’estrema difficoltà di esportare la nostra idea di democrazia
Ci voleva questo scarto, questo strappo inventivo nella routine di una stagione fin qui piuttosto sottotono. Afghanistan: il grande gioco è la nuova avventura artistico-produttiva del Teatro dell’Elfo, una proposta in due parti - la prima in scena ora, la seconda l’anno prossimo – che ha l’ampio respiro drammaturgico di Angels in America e l’urgenza storico-cronistica di Frost/Nixon: insolito nello stile e nella scelta del tema, Afghanistan è un evento anomalo che attira e incuriosisce anche al di là della qualità estetica, molto in linea col carattere dell’Elfo di questi anni e, vien da dire, con una certa effervescenza diffusa tipica della Milano di oggi.
L’incalzante allestimento di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani è la versione italiana di un progetto nato nel 2009 al Tricycle Theatre di Londra, un organismo specializzato in spettacoli dal forte taglio politico, che in origine era costituito da tredici testi firmati da altrettanti autori diversi, destinati a ridursi a undici in quello che sarà l’esito finale del lavoro dei due registi: l’obiettivo era ed è un colossale affresco sulle vicende dello Stato afghano dal 1842 – l’anno della sanguinosa rivolta contro l’imperialismo britannico – fino ai giorni nostri.
Perché l’Afghanistan? Perché è un territorio strategico che ha resistito agli inglesi, ai russi, agli americani, è stato culla dei talebani ed epicentro di alcuni conflitti fra i più rovinosi del nostro tempo, a cui l’Italia partecipa con le sue missioni. Ma provare a capire l’Afghanistan – ovvero scontrarsi con la difficoltà di comprenderlo realmente – può anche servire a farsi un’idea di ciò che è accaduto in Iraq, in Siria, in tutto il Medio Oriente. E, grazie alle didascalie che introducono l’azione, a meglio inquadrare le ragioni di tante ondate migratorie e masse di rifugiati che cercano asilo in Italia e nel mondo.
Formalmente Afghanistan somiglia poco all’Indi ade e agli altri grandi “documentari teatrali” di Ariane Mnouchkine, che erano immagini d’archivio in movimento, ritagli di giornale animati sulle grandi figure e i grandi avvenimenti alla base dell’India moderna, riprodotti con una fedeltà quasi fotografica. Questi testi dalla scrittura molto varia, pur partendo da fatti e personaggi scrupolosamente veri, tendono a comporsi in una sorta di sfaccettato romanzone popolare, non privo di risvolti cinematografici, dove si intrecciano guerre, rivolte, complotti, annotazioni di costume, intrighi spionistici e inquiete trame famigliari.
Il primo, Trombe alle porte di Jalalabad di Stephen Jeffreys, evoca in tono epico-simbolico gli orrori della disastrosa ritirata britannica del 1842, visti con gli occhi di cinque soldati e di una stralunata Lady. Il secondo, La linea di Durand di Ron Hutchinson, mostra la surreale disputa fra un diplomatico inglese e un emiro su un’incerta linea di confine da tracciare su una mappa. Il terzo, Questo è il momento di Joy Wilkinson, uno dei più densi, mostra l’ex-re Amanullah Kahn alle soglie dell’esilio e di una crisi coniugale, in fuga notturna con la moglie Soraya e il suocero, nel 1929.
Il quarto, Legna per il fuoco di Lee Blessing descrive con impassibile oggettività le ambigue intese fra la CIA, i mujaheddin e i servizi
segreti pakistani. Il quinto, Minigonne di Kabul di David Greig, immagina l’ultima intervista di una giornalista europea a Najibullah, presidente deposto, trucidato nel ’92 dai Talebani.
Ne viene fuori un groviglio di storie via via sempre più avvincente, in cui si entra magari un po’ a fatica, ma del quale, alla fine, si ve-
drebbe volentieri la puntata successiva. Le brevi pièce illuminano, ciascuna per suo conto, situazioni che partono da lontano ma ogni giorno ci toccano in qualche modo direttamente, e di cui in fondo sappiamo poco. Il linguaggio del teatro non può certo chiarirne la complessità, ma ci aiuta a riflettere su di essa: se ne esce con l’impressione di una cultura cui è impossibile applicare gli schemi occidentali, che pone in luce soprattutto la vanità dell’illusione di portare la nostra idea di democrazia in un contesto dove anche le conquiste civili devono essere imposte con la forza.
Lo spettacolo – spoglio, ambientato in un ideale luogo di passaggio, un centro di accoglienza che diventa di volta in volta una fortezza, la sala di un palazzo, un campo di battaglia – va dritto allo scopo, senza fronzoli: pochi oggetti, qualche richiamo a una certa iconografia asiatica, tende su cui vengono proiettati ritratti e paesaggi. Gli otto attori – fra cui spiccano Leonardo Lidi, Enzo Curcurù, Claudia Coli – danno vita a una ventina di personaggi con apprezzabile intraprendenza, benché con risultati non sempre all’altezza. Afghanistan: il grande gioco, regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, Milano, Teatro Elfo Puccini, fino al 5 febbraio