L’inizio e la fine nella parola
Noi siamo le nostre parole, dice e scrive Louise Banks ( Amy Adams), la linguista di Arrival ( Usa, 2016, 116’). E con le sue parole rivolte alla figlia morta comincia il film che Denis Villeneuve e lo sceneggiatore Eric Heisserer hanno tratto da un racconto di Ted Chiang ( lo si legge in Storie della tua vita, edito da Frassinelli).
Quando sei nata, dice Louise alla figlia, pensavo che quello fosse l’inizio, poi ho scoperto che era la fine. Intanto rivede nella memoria le immagini di lei nei primi anni, e poi nell’adolescenza che culmina in una malattia mortale. Una malattia irreversibile, le dirà più avanti. La scelta di questa parola, irreversibile, rimanda a una visione del tempo, all’immagine del suo procedere in avanti, in un verso senza ritorno, come un fiume inarrestabile. Nel film non si dice quale sia la malattia. Quello che conta è il lutto di Louise, sofferto con un’intensità assoluta.
L’inizio si è rivelato la fine, racconta la sua voce fuori campo nella prima sequenza. Come suggerisce il titolo del film, l’inizio si è mutato in un arrivo. Questo è il lutto, la sofferenza: che già alla nascita – all’inizio – la figlia fosse in cammino verso la morte, meta necessaria per chi abiti il fiume del tempo. E ancora, che questo arrivo abbia cancellato e reso
vano quell’inizio, e tutto quanto da allora è stato.
Se glielo domandassero, Louise ammetterebbe che tanto il lutto quanto l’immagine del tempo sono fatti di parole, delle sue e delle nostre parole, come ogni cosa umana. Ma nel suo dolore Louise dimentica quello che nella sua ricerca ha scoperto. Per ricordarglielo, la sceneggiatura inventa la storia che sembra rendere Arrival un racconto ( solo) di fantascienza.
Nel cielo d’America e di altri undici Paesi incombono enormi monoliti silenziosi. Il governo americano tenta di comunicare con gli alieni per scoprirne le intenzioni, e il colonnello Weber ( Forest Whitaker) arruola Louise e il matematico Ian Donnelly ( Jeremy Renner) con il compito di decifrare la lingua dei “visitatori”. Il rischio è che i monoliti si colleghino fra loro e attacchino la Terra, come temono gli altri governi. Il compito di Weber e dei suoi diventa sempre più difficile e pressante. E però non di un’incombente invasione del nostro pianeta si appresta a raccontare Villeneuve. Nel suo film gli alieni valgono come specchio del lutto di Louise, della sua sofferenza per quella malattia irreversibile che le sembra la vita.
Come avverrà l’incontro? Da quale segno prenderà le mosse la traduzione delle parole aliene nelle nostre, e delle nostre nelle aliene? Louise e Ian devono attraversare la distanza fra Noi e Loro, gli estranei, i non misurabili. La regìa rende visivo questo passaggio necessario dall’ovvio all’inimmaginato inventando un corridoio in cui accade un sorprendente ribaltamento di spazialità. Ma poi, una volta di fronte agli alieni, rimane le necessità della traduzione, del passaggio non più fisico, ma linguistico. E rimane la necessità che il cinema ne dia un’immagine immediata, di per sé espressiva.
Gli alieni scrivono gettando inchiostro da uno dei loro sette arti, e disegnando cerchi sospesi che valgono come segni leggeri. Ecco l’immagine “parlante” del loro linguaggio. Di cerchio in cerchio, Louise entra in una dimensione comunicativa che non ha né inizio né fine. Non c’è un verso nella scrittura degli ectapodi e nella loro lettura. Nelle loro parole che galleggiano nell’aria ( se così si può chiamare il gas in cui si muovono) non ci sono né prima né poi. Il loro tempo, pensato e vissuto con le loro parole, si avvolge su se stesso, senza mete che lo attendano e lo uccidano. Tutto è qui, ora e insieme, sia quello che noi chiamiamo passato sia quello che noi chiamiamo futuro.
Anche mia figlia è qui, immagina Louise. Ciò che è stato non smette di essere. Il fiume è un cerchio infinito in cui non c’è alcun verso, e che si muove restando fermo, in un ritorno eterno. Questo il suo lutto e la sua sofferenza chiedono alle sue parole. Ora Louise ne è certa. %%%% %