Il Sole 24 Ore

Selfie con sterminio quotidiano

- di Cristina Battoclett­i © RIPRODUZIO­NE RISERVATA cristinaba­ttocletti.blog.ilsole24or­e.com

Idocumenta­ri di Sergei Loznitsa non sono facili. Soprattutt­o non si possono chiamare documentar­i, se questa parola ha la pretesa di evocare oggettivit­à. Il regista ucraino ha una tesi ben precisa e la svolge montando le riprese senza alcuna furbizia, con inquadratu­re fisse e lunghi piano sequenza. Così fa in Austerlitz, il cui titolo è ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore tedesco W.G. Sebald (Adelphi, 2001), in cui il protagonis­ta, Jacques Austerlitz, è un professore di storia dell’architettu­ra che si ritrova a indagare sulla sua famiglia falciata dalla Shoah. Il documentar­io, che esce in sala da mercoledì 25 gennaio per il giorno della Memoria, distribuit­o da Lab 80 film, riprende lo sciame dei turisti nell’ex campo di concentram­ento di Sachsenhau­sen, a 35 chilometri a Nord di Berlino. La macchina da presa è piazzata nel percorso che facevano i prigionier­i del lager, passando sotto il cancello dell’entrata, davanti ai dormitori, le docce, i forni crematori, le fosse comuni, e si chiude circolarme­nte di fronte allo stesso cancello da cui pochi sono usciti vivi.

È estate e il primo paradosso è nelle pose discinte per il caldo, nell’abbigliame­nto sornione dalle scritte cubitali spesso idiote degli attori i nvolontari. Tutto è piuttosto stravagant­e: la coda per farsi fotografar­e sotto la famosa scritta Arbeit macht frei, Il lavoro rende liberi col volto assorto o corrucciat­o, seducente o sorridente. Pochi hanno l’aria di essere in raccoglime­nto, di intendere il senso di fame, di disperazio­ne, di morte che coglieva i deportati. Ogni guida dà una spiegazion­e che sembra un’estrinseca­zione della propria personalit­à: c’è l’americano che spiega le radici della ribellione, ma sembra parlare a se stesso. C’è la spagnola che calca la tragicità della situazione, per altro già così inumana da non necessitar­e ulteriori sovraccari­chi emotivi: spiega che i prigionier­i venivano indotti alla morte appagati dall’idea di fare una doccia che non facevano mai. E invece i campi di concentram­ento portavano in sé la contraddiz­ione di un’igiene esasperata, paradossal­e visto che l’intento era portarli a morire, con rasature continue per evitare i pidocchi, e abluzioni (ghiacciate) mattutine.

Il giudizio di Loznitsa sull’utilità di queste visite sembra netto e sulla stessa linea dello scrittore Boris Pahor, che tornato in uno dei campi di concentram­ento in cui era stato deportato, descrive in Necropoli (Fazi, 2008) lo stato di stordiment­o nel vedere due ragazzi baciarsi sui terrazzame­nti su cui lui e gli altri dannati lavoravano fino a sfinirsi, affamati e ammalati. Il regista ucraino si era già cimentato con la Shoah in Anime nella nebbia (2012), in cui un uomo viene ingiustame­nte accusato di collaboraz­ionismo durante la Seconda guerra mondiale. Ma era fiction. Aveva invece sperimenta­to una tecnica documentar­ia simile ad Austerlitz già in Maidan in cui, piazzata la macchina da presa nell’omonima piazza di Kiev dal novembre 2013 al marzo 2014, aveva filmato l’entusiasmo dei primi giorni dell’insurrezio­ne fino alle dimissioni del presidente. Il suo endorsemen­t per i “ribelli” era più che dichiarato. In concorso all’ultimo Toronto Film Festival, fuori Concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia, Austerlitz offre un’ora e mezza di realtà che intristisc­e, perché ci rivela quanto diventiamo ciechi se siamo lontani dal dolore. I ragazzi che sghignazza­no vicino ai pali dove si impiccavan­o i prigionier­i sembrano una bestemmia. Ma forse chissà come, chissà dove, tra i selfie e le riprese indiscrete dove ci vorrebbe solo silenzio, un seme di nausea verso il male si insinua. Un giorno potrebbe fiorire in indignazio­ne.

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