C’è del buono in Danimarca
Tra squisitezze di muschio e radici avanza e cresce la new nord ic cuisine dello chef di Noma Re né Redzepi
La sollecitazione di cominciare con «carramba che sorpresa» è tanta, ma acclarato che il fenomeno Noma, ovvero René Redzepi esiste da anni, così come il movimento «new nordic cuisine», è forse improprio scriverlo perché arrivo tardi. Ciò non toglie che sia una fondamentale scoperta, almeno per me, così come lo è stato nel luglio 1998 Ferran Adrià. Diversi, seppur unici esponenti di una filosofia di cucina che ho già definito altrove: «meta cucina». Una filosofia gastronomica che rompe un assioma frequente nel linguaggio culinario, ovverosia la distinzione tra chef compositore e cuoco esecutore perché «meta cucina» è una fusione di queste due figure.
Questa definizione non significa solo ricette e piatti in grado di sbalordire i palati, di meritare le vette delle guide, ma una modalità, una filosofia che va oltre il sapore, il profumo degli ingredienti e l’armonia finale del piatto, in grado di offrire alla testa un insieme di nuovi stimoli quali la ricerca che sta dietro al risultato finale e che comunque da luogo anche a un giudizio di valore palatale. È fuor di luogo che, mentre assaggiavo i piatti al Noma, riflettevo sugli ingredienti, di certo diversi, quali i selvatici (come l’anatra o il muschio), ma non sorvolavo sul sapore del cuore di quell’anatra o sui frutti selvatici in aceto di contorno o sul gusto goduto all’assaggio di quella straordinaria visione del muschio imbiancato dalla colata di cioccolato bianco, e ancora alla “postazione sulle foglie di stagione” dell’aglio nero fermentato, del ramo con formiche, nasturzio e creme fraiche, della foglia secca di purea di ribes con yougurt al sambuco, della pera marinata nel succo di bacca di anoia e servita con pelle d’anatra croccante. E ancora
quelle nuances dei ricci di mare inseriti in foglie di cavolo o il caleidoscopio della naturalità delle dieci erbe selvatiche, cotte sulle braci al sapore di cappesante. Ho tuttora in bocca quel sapore della cagliata servita con noci fresche, alga cotta nel suo brodo. Che dire poi della mela di stagione, svuotata e colma di variegate bacche selvatiche in apertura del pranzo o il piatto di radici che mostrano start all’apparenza semplice, ma offrono un’idea di quali potenzialità abbia in sé la naturalità. La cucina di Redzepi può certamente definirsi solo creativa, ma è soprattutto frutto di diversi processi d’innovazione, creati nel tempo con la sperimentazio-
ne. Ciò che distingue la creatività (la lampadina di Archimede Pitagorico!), che si accende negli chef compositori per una nuova ricetta (capita spesso confusa con una riforma della tradizione), dall’innovazione è che, l’una è frutto di una intuizione, mentre la seconda nasce da un progetto e diventa patrimonio comune.
Lo chef danese ha creato una realtà, non solo attraverso la sua singolare creatività, ma con una stretta collaborazione con la ricerca (nel 2008, assieme al suo partner Claus Meyer ha creato il Nordic food lab, poi assorbito dall’Università di Copenaghen che svolge ricerca in tutto il mondo) un nuovo tessuto gastronomico, appunto la “new nordic cuisine” che ha anticipato le tendenze: sostenibilità, naturalità, organic, cibo selvatico, foraging. Questi impulsi hanno fatto sì che i governi non solo della Danimarca, ma della Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia abbiano varato nel 2006 il «nuovo Programma alimentare Nordico», basato sulla New nordic cuisine con un primo finanziamento di 3 milioni di euro.
Il movimento che ha generato Redzepi, non ha un valore solo per la sua attività di chef e di chi ha seguito le sue idee, ma ha “inventato”, basandosi solo sulle peculiarità del territorio scandinavo, una cucina inesistente che ha attratto i fari del mondo promuovendo economia e turismo. Fino all’esplosione della notorietà del Noma, la città di Copenaghen, dal punto di vista gastronomico non offriva alcun interesse. Nel 1996 ho redatto la Guida ai migliori 144 ristoranti d’Europa (Sperling&Kupfer Editori): ebbene Copenaghen non offriva alcuna eccellenza, l’unico riconosciuto di scuola francese, era il Sollerod-Kro a Sollerod– Holte Kro, inserito dopo averci cenato.
Attualmente a Copenaghen c’è invece una notevole possibilità di scelta (22 ristoranti con 26 stelle; a Milano 17 locali stellati), soprattutto gli allievi di Redzepi hanno dato vita a nuovi locali. Certo quando si crea un movimento, come quello della new nordic cuisine (o di Ferran Adrià) c’è il rischio di dar vita sia a un manipolo di scopiazzatori non preparati, sia a un fenomeno internazionale che riesce a propagarsi. La naturalità al Noma non è solo in cucina, ma è presente anche nella scelta di abbinamento dei piatti: vino, solo ed esclusivamente il cosiddetto naturale, oppure succhi di bacche, erbe frutti. Ebbene i 3 dessert (uno a base di patate e prugne, il gelato al ribes e bacche commestibili viola della kotukutubu e il muschio al cioccolato bianco) sono serviti, sorprendentemente con il vino italiano Frinire di cicale del Podere Pradarolo di Varano dei Melegari.
Lo stile della cucina di Noma si riflette anche nel locale caratterizzato da una apparente semplicità dove i materiali impiegati sono all’insegna della sostenibilità e naturalità. Non c’è ombra di lusso se non la rarità dell’esperienza di un pranzo o di una cena: gli ospiti non sono vestiti con eleganza da occasione né siedono per farsi vedere o emozionati per un selfie con lo chef o per l’autografo sul libro, così come non ci sono Ferrari nel parcheggio o bodyguard. Ci sono però tutti: chef, sous chef, maitre, sommelier all’ingresso a dare il benvenuto fino all’arrivo dell’ultimo ospite... Sine qua non