L’isola senza spiagge
Per dare l’idea del fatto che Pantelleria sia un luogo da trovare, quasi che ci si debba accertare della sua effettiva esistenza, prima di approdarvi, che sia, in altre parole, un luogo nel quale non si può capitare per caso, uno scalo temporaneo, una tappa sicura, non si poteva non evocare l’isola Ferdinandea, la cugina vulcanica emersa dalle acque del Canale di Sicilia e poi di nuovo inabissatasi quasi due secoli fa. È indugiando su questa suggestione mediterranea, con la quale a loro volta i marittimi del traghetto della Siremar si ostinano ad ammaliare le avventurose turiste straniere, che Giosuè Calaciura è sbarcato a Pantelleria. L’ultima isola, il più recente volume della collana Contromano di Laterza, di cui è autore.
L’isola, infatti, è fuori dalle rotte più battute che collegano l’Africa all’estrema propaggine a sud del continente europeo: a differenza di Lampedusa, per esempio, non è stata approdo salvifico, in questi anni, per le migliaia di donne, uomini, bambini che vi sono giunti, né scenario di quelle tragedie epocali che la più grande delle Pelagie ha conosciuto. Perché si trova più a est e più a nord, prospiciente Capo Bon, Tunisia, certo. Ma forse anche perché si tratta di «un’isola senza spiagge» (come recita il titolo di uno dei primi capitoli del libro), dunque senza approdi agevoli: un grumo di pietra lavica in mezzo al Mediterraneo, cinquantuno chilometri di costa rocciosa di abbagliante bellezza, per di più battuta dallo scirocco e dal maestrale, che soffiano impetuosi.
La sua orografia la rende pertanto refratta- ria al turismo di massa e ai ricatti «dei grandi numeri della villeggiatura mordi e fuggi, degli sbarchi dai traghetti veloci e corsari che vomitano visitatori storditi ed esausti, il tempo di un tuffo, il pranzo di prodotti tipici,lo shopping lungomare di qualche ossidiana e la maglietta con il profilo evanescente dell’isola».
Le pagine di Calaciura si dispiegano a partire da questo assunto: Pantelleria, come e più di ogni isola minore, è un piccolo cosmo che fa storia a sé (del resto vanta perfino un lago, lo Specchio di Venere e una “Montagna”, immancabilmente “Grande”, alta 836 metri): con la sua economia agricola frutto di quell’ingegno che la necessità di adattarsi a condizioni ambientali proibitive raffina fino a renderlo genio (le pagine dedicate ai jardini e alle tecniche di coltivazione degli agrumi, dei capperi, dello zibibbo da cui si ricava il vino passito, sono imperdibili); con le sue architetture essenziali e le sue piccole abitazioni di conci di pietra, i dammusi, da qualche anno diventati patrimonio Unesco; con le sue necropoli, vissute dai panteschi come spazi del tutto omogenei alla topografia dell’isola.
E con molte altre storie (come quella di García Marquez che soggiorna a Pantelleria e anni dopo la trasfigura in uno dei Dodici racconti raminghi), che l’autore raccoglie e restituisce con un tono di rispetto affettuoso e una lingua di dolce esattezza, tenendosi alla larga, per la gioia dei lettori, dalle pose autoriali, intimistiche e personali, di chi pretende di raccontarti la “sua” isola.
Giosuè Calaciura, Pantelleria. L’ultima isola, Laterza, Roma- Bari, pagg.92, € 12