Stile per il tempo presente
Non voleva che alle sue conferenze presenziassero i «vincitori di guerre. Possono però mandarmi i loro bambini. Tuttavia, la loro autorità paterna ne risulterà poi minata per sempre». Adolf Loos (1870-1933) fu un rivoluzionario, non solo dell’architettura: figlio dell’Austria felix, studi in America, protagonista della Secessione viennese e del tramonto della Mitteleuropa tra i due conflitti mondiali, fu intellettuale di spicco e amico di intellettuali e artisti dell’avanguardia, tra cui Karl Kraus, con cui condivideva una penna muriatica e l’irresistibile ironia austriaca.
Anche nella raccolta di scritti sul costume, intitolata Come ci si veste ed edita qualche mese fa da Skira, Loos sfoggia uno stile caustico e canzonatorio, irridendo le perniciose mode del suo tempo, specie quelle tedesche, sbeffeggiando l’eccentricità e il cattivo gusto, elogiando l’austerità e compostezza dell’eleganza, soprattutto quella inglese. Molti lustri prima di Armani, l’architetto e bon vi
veur appuntò: «Essere vestiti bene cosa significa? Significa: essere vestiti in modo corretto. Si tratta di essere vestiti in modo da farsi notare il meno possibile. Nella buona società, tutto ciò che attira l’attenzione è contrario al buon gusto».
Loos ne ha per tutti, e per tutti i gusti e le tendenze, dai cappelli alle calzature, dai baffi ai vezzi per signorine (le pagine sulla moda femminile sono tra le più irriverenti), dalla foggia dei pantaloni al taglio dei ca-
pelli, dall’assurda mania dei tatuaggi e del batik alle cravatte preconfezionate, dai gilet all’intimo – un capitolo in cui non risparmia di criticare la sciatteria e sozzeria dei suoi connazionali e vicini di lingua tedesca: «Le sottovesti in maglia sono destinate solo a coloro che si lavano. Molti tedeschi pensano che indossare la biancheria in jersey permetta di non lavarsi. Vengono dalla Germania tutte le invenzioni che dovrebbero evitare di lavarsi».
Per l’autore la moda non è tanto un fenomeno frivolo ed effimero quanto «lo stile del tempo presente... Fra cent’anni chiameremo la moda della nostra epoca il suo stile, che si parli di cappelli per signore o di cattedrali». Perciò l’«etichetta» non è solo una formalità fine a se stessa, ma una piccola etica, una regola di convivenza civile e democratica, un modo di stare al mondo educato e rispettoso. Scrive Loos: «Più un regime è liberale, più gli uomini sono limitati nelle loro azioni», azioni che comprendono il decoro, le buone maniere, il buon gusto, cui ciascuno si dovrebbe attenere per non minare la pacifica coesistenza. Ecco perché vestirsi male, cioè in modo scorretto e inappropriato, equivarrebbe quasi a «vuotare il pitale in strada perché mi secca tenerlo pieno in casa, senza riguardo per i passanti».
La riflessione sui costumi diventa così un trattatello sul costume lato sensu, non moralistico ma pensoso, con saporiti excursus sull’operosa «casalinga tedesca» e sulla maleducazione dei viennesi a tavola, battuti in bon ton persino dai giovani studenti giapponesi in trasferta europea. Il «nuovo Werther» di inizio Novecento dovrà presto rassegnarsi all’«uomo in salopette » di importazione americana, ma – avverte Loos – la moda è un affare troppo serio per imbrigliarla in rigidi dogmi e spicciole imposizioni: «Un uomo che voglia insegnare alle donne come vestirsi vuol dire che considera la donna come un oggetto sessuale. Farebbe meglio a occuparsi dei propri abiti. Le donne sanno cavarsela da sola». Correva l’anno 1928. Adolf Loos, Come ci si veste, Skira, Milano, pagg. 92, € 14