La mappa dice sempre la (sua) verità
Una mappa, ben lungi, dall’essere una fedele rappresentazione dell’esistente, non è mai neutrale. È sempre un’interpretazione. Il paradosso della cartografia, alla fine, è proprio questo: una carta dice ciò che le si vuol far dire – e solo gli esperti possono capirla in fondo, o, meglio, vedere anche i talora subdoli trucchi che nasconde, e, di più, la realtà che essa “crea”, spesso a dispetto di quella realtà fisica o naturale che dovrebbe certificare. Esempi ce ne sarebbero molti: e l’uomo è sempre la mano e la mente che “manipola”. Ecco: quando si capita in una mostra come l’ottima «La geografia serve a fare la guerra?» alla Fondazione Benetton Studi Ricerche di Treviso (fino al 19 febbraio), si fa una passeggiata che è piena di meraviglie cartacee ma soprattutto molto illuminante. Si vede eccome che a curarla c’è un geografo come Massimo Rossi (autore anche del pregevole catalogo): e se anche l’allestimento, curato dai “cugini” di Fabrica, è potente e ben congegnato, è proprio la forza stessa della proposta e del famigerato “messaggio” che diventa centrale. Nessuno come un geografo, infatti, è in grado di far capire agli spettatori la natura “finzionale” di una carta geografica: proprio perché chi ama la geografia sa quanto essa sia un prodotto eminentemente culturale e col quale ci si confronta, che se ne sia consapevoli o no. Esempio: i nomi dei luoghi. Nominare un luogo non è solo un modo per riconoscerlo; è un modo per farlo proprio. Le mappe esplicitano nei toponimi dati oggettivi, sì, ma anche sociali: alterare una grafia, rinominare un luogo è un riordino, culturale, della realtà. E se la tedesca Karfreit si muta nell’italiana Caporetto, per divenire la slovena Kobarid, ecco il caso fantastico dell’asburgica Sterzing, italianizzata Vipiteno (un posto peraltro mai esistito in quel territorio; Vipiteno era un nome romano di una zona finitima).E, se siamo vicini a una guerra, a una tensione di confine, iniziamo a chiamare territori dando voce a “speranze” territoriali magari prima inespresse: “Alto Adige”, “Venezia Tridentina”, “Venezia Giulia”, ma anche, semplicemente, nel caso di un fiume, cambiandone il genere: la Piave, diventato poi il mormorante Piave sacro alla patria. In sei sezioni, ciascuna da degustare con attenzione (è essenziale l’uso delle audioguide), dall’antichità a oggi, ma con una focalizzazione sugli anni della Grande Guerra (eccellente, per esempio, la carta della dislocazione delle colombaie mobili sul Piave e le soluzioni pensate dallo Stato Maggiore italiano per invitare le popolazioni dei territori occupati a fornire vitali informazioni ai volatili, addestrati a far ritorno nei loro luoghi di nascita), la mostra trevigiana è la dimostrazione che la Storia è un prodotto della geografia e viceversa. È una di quelle esposizioni nella quale gli assenti hanno torto: per la bellezza ma soprattutto per l’informazione che veicola. Un pregio in più, questo della Fondazione Benetton, che onora le parole “Studi e Ricerche”, spesso trascurate e giudicate noiose. Bisogna sapere come porgere le cose: e per far capire ogni tanto ci vuole anche uno sforzo. Loro lo hanno fatto egregiamente, ora tocca a noi visitatori.