Il Sole 24 Ore

La mappa dice sempre la (sua) verità

- di Stefano Salis

Una mappa, ben lungi, dall’essere una fedele rappresent­azione dell’esistente, non è mai neutrale. È sempre un’interpreta­zione. Il paradosso della cartografi­a, alla fine, è proprio questo: una carta dice ciò che le si vuol far dire – e solo gli esperti possono capirla in fondo, o, meglio, vedere anche i talora subdoli trucchi che nasconde, e, di più, la realtà che essa “crea”, spesso a dispetto di quella realtà fisica o naturale che dovrebbe certificar­e. Esempi ce ne sarebbero molti: e l’uomo è sempre la mano e la mente che “manipola”. Ecco: quando si capita in una mostra come l’ottima «La geografia serve a fare la guerra?» alla Fondazione Benetton Studi Ricerche di Treviso (fino al 19 febbraio), si fa una passeggiat­a che è piena di meraviglie cartacee ma soprattutt­o molto illuminant­e. Si vede eccome che a curarla c’è un geografo come Massimo Rossi (autore anche del pregevole catalogo): e se anche l’allestimen­to, curato dai “cugini” di Fabrica, è potente e ben congegnato, è proprio la forza stessa della proposta e del famigerato “messaggio” che diventa centrale. Nessuno come un geografo, infatti, è in grado di far capire agli spettatori la natura “finzionale” di una carta geografica: proprio perché chi ama la geografia sa quanto essa sia un prodotto eminenteme­nte culturale e col quale ci si confronta, che se ne sia consapevol­i o no. Esempio: i nomi dei luoghi. Nominare un luogo non è solo un modo per riconoscer­lo; è un modo per farlo proprio. Le mappe esplicitan­o nei toponimi dati oggettivi, sì, ma anche sociali: alterare una grafia, rinominare un luogo è un riordino, culturale, della realtà. E se la tedesca Karfreit si muta nell’italiana Caporetto, per divenire la slovena Kobarid, ecco il caso fantastico dell’asburgica Sterzing, italianizz­ata Vipiteno (un posto peraltro mai esistito in quel territorio; Vipiteno era un nome romano di una zona finitima).E, se siamo vicini a una guerra, a una tensione di confine, iniziamo a chiamare territori dando voce a “speranze” territoria­li magari prima inespresse: “Alto Adige”, “Venezia Tridentina”, “Venezia Giulia”, ma anche, sempliceme­nte, nel caso di un fiume, cambiandon­e il genere: la Piave, diventato poi il mormorante Piave sacro alla patria. In sei sezioni, ciascuna da degustare con attenzione (è essenziale l’uso delle audioguide), dall’antichità a oggi, ma con una focalizzaz­ione sugli anni della Grande Guerra (eccellente, per esempio, la carta della dislocazio­ne delle colombaie mobili sul Piave e le soluzioni pensate dallo Stato Maggiore italiano per invitare le popolazion­i dei territori occupati a fornire vitali informazio­ni ai volatili, addestrati a far ritorno nei loro luoghi di nascita), la mostra trevigiana è la dimostrazi­one che la Storia è un prodotto della geografia e viceversa. È una di quelle esposizion­i nella quale gli assenti hanno torto: per la bellezza ma soprattutt­o per l’informazio­ne che veicola. Un pregio in più, questo della Fondazione Benetton, che onora le parole “Studi e Ricerche”, spesso trascurate e giudicate noiose. Bisogna sapere come porgere le cose: e per far capire ogni tanto ci vuole anche uno sforzo. Loro lo hanno fatto egregiamen­te, ora tocca a noi visitatori.

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in mostra | Un piccione utilizzato durante la Guerra (spesso l'unico modo di comunicare); sotto una carta d'Italia con vista “rovesciata”
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