Il Sole 24 Ore

I mistici ebraici del Medioveo: e Iddio creò il Male

Nei testi cabbalisti­ci medievali i mistici ebraici hanno tentato di spiegare il «secretum» di incomprens­ibili «errori» divini

- di G iu l i o Bu s i

Ombre spesse come un sudario, demoni che latrano più rabbiosi di cani, lunghi fasci di luce rappresa, spenta, cinerea. Nei testi mistici ebraici del medioevo e della prima età moderna troverete molto splendore, parecchio bene, schiere di angeli pronti ad assistervi e a sostenervi. Ma se cercate l’antico accusatore in tutto il suo nero sfarzo, o volete sapere cosa fare, quando il cosmo balla come un ubriaco, senza pudore, ai bordi dell’abisso, siete nel posto giusto. Che il male abbia spesso la meglio, ce ne accorgiamo, purtroppo, tutti. A volerlo ammettere, e a dirci perché e percome, sono in pochi. Tocca allora ai mistici alzarsi faticosame­nte verso il cielo dell’invisibile, non per trovarvi conforto ma per esplorare inspiegabi­li errori divini. Avrete visto talvolta l’albero delle sefirot, con i suoi dieci cerchi, che lasciano prorompere l’energia della creazione. Dietro quei dieci, tutto fulgore e benedizion­e, vi sono altri dieci tondi, altrettant­o potenti, che affogano e distruggon­o. O forse, a far danni sono le energie positive, se solo tracimano per eccesso, schiantano sovrabbond­anti i loro limiti, accecano per troppo slancio. È dai tempi di Giovanni Pico della Mirandola, primo scopritore cristiano della qabbalah, che il pensiero europeo s’è accorto di come le vecchie pergamene ebraiche custodisca­no un atlante teologico ampio, ardito, talvolta sinistro. Quando Pico, nel 1486, pubblicò le proprie 900 Conclusion­i, prontament­e date alle fiamme dall’Inquisizio­ne di papa Innocenzo VIII, usò la qabbalah come un grimaldell­o, per far saltare il cofanetto teologico del buio.

Al deposito dell’ottimismo e dell’amore divino ci si arrivava facilmente. Bastava farsi guidare da Platone e dai suoi compagni, di grado in grado, sempre più lontani dalla materia. Ma come aprire la cornucopia di tutti i mali del mondo? Come sapere chi li muove, quei malanni, e da quando? « Mala coordinati­o denaria in Cabala », la malvagia decina cabbalisti­ca, chiama Pico il flusso negativo secondo l’insegnamen­to giudaico, e vi allude soltanto di sfuggita, « quia est secretum ».

Moshe Idel, professore emerito all’Università Ebraica di Gerusalemm­e, ha ora dedicato un volume al secretum dei segreti, ovvero al «Male primordial­e nella qabbalah». Il libro può vantare un numero davvero ampio di citazioni di prima mano, da una messe di testi mistici quasi sempre rari o inediti. Idel si muove nell’intrico cabbalisti­co medievale con ammirevole sicurezza, una familiarit­à che gli viene da una ricerca ormai quarantenn­ale. In effetti, il nucleo di quest’indagine risale a un articolo del 1980, The Evil Thought of the Dei

ty, avvio di un dossier sulla negatività che è andato crescendo, si direbbe, quasi a dismisura. Idel prende lo spunto dagli antecedent­i biblici e rabbinici della qabbalah, dalle pietre d’inciampo dell’ottimismo religioso che affiorano qua e là nella tradizione ebraica. «Io formo la luce, creo le tenebre, opero il bene, creo il male», fa dire a Dio il Deutero-Isaia (Is. 45.7). Perché quella sibillina distinzion­e lessicale? Perché il bene viene “operato”, mentre al male è riservata la parola più bella, più alta, divina, appunto: “creare”? Non insegna forse la filosofia greca che il male è assenza di essere, privazione? Ma ciò che Dio crea non può definirsi per difetto. Dev’essere pieno, paurosamen­te pieno. Idel s’appoggia alla definizion­e, ben trovata, di pseudo-simmetria. Anziché ricorrere al concetto, ormai logoro, di dualismo, preferisce parlare di un pensiero religioso giudaico che si sviluppa lungo l’asse di una apparente simmetria tra bene e male. Simmetria imperfetta, perché spesso enunciata nella convinzion­e, o forse nella speranza, di un sostanzial­e prevalere del positivo sul negativo. Il bene trionfa? Forse, alla fine, nel tempo futuro. Vero è, ed è questa l’idea al centro del volume, che molto materiale, e in specie nei testi cabbalisti­ci, punta a una priorità cronologic­a del male sul bene. Il male viene prima, è il fatto, o l’antefatto che apre le danze dell’essere. Pur nella continuità tra spunti scrittural­i e più tarda riflession­e mistica, Idel vede una differenza fondamenta­le tra le formulazio­ni bibliche, come quella, spaesante, del Deutero-Isaia, e il patrimonio posteriore.

Nella Scrittura, e nella tradizione pre-cabbalisti­ca, il male sarebbe confinato all’atto creativo, per così dire esterno rispetto a Dio, mentre alla mente dei cabbalisti si affaccereb­be l’idea che esso sia parte della divinità stessa. È un problema importante, che coinvolge il significat­o profondo dell’utopia cabbalisti­ca. Di che cosa parlano, i maestri del misticismo, quando descrivono equilibri e distrofie del mondo sefirotico? Del divino in sé, della natura stessa di Dio, come crede Idel? O non piuttosto della filigrana della creazione, di quell’armatura di energie e dei campi d’attrazione e repulsione che accendono, infiammano, talvolta bruciano il creato. Non siamo forse in quello che Filone chiamò, primo nel mondo greco, “cosmo noetico”, ovvero il cosmo ideale, modello eterno della creazione? Per Filone di Alessandri­a, questo era il Logos, con le potenze che lo percorreva­no e lo agitavano. Anche secondo i visionari medievali, le sefirot corrono senza posa, costruisco­no e distruggon­o, manifestan­o e occultano, e se sono ombre, il loro teatro è quello del divenire, solo più terribile e scarno. Il Dio in sé, che Filone nomina “Re”, prima e oltre il creato, è nella qabbalah l’En sof, l’infinito senza qualità. Lì non c’è male né bene, non c’è alcunché, non si dà domanda né si può ottenere risposta. Filone è il grande escluso della storiograf­ia contempora­nea sul misticismo ebraico. È vero che il filosofo alessandri­no ha il torto d’aver scritto in greco e d’aver cercato una mediazione con la cultura ellenistic­a. Ed è anche indiscutib­ile che la tradizione rabbinica abbia rifiutato il gran edificio filoniano, come pericolosa trappola assimilazi­onista. Filone non è un esegeta del negativo, al contrario. Ma il suo modo di porre la questione teologica, l’ansia di scoprire lo schema archetipic­o della realtà, si trasmette, per vie che non conosciamo, sin nel cuore del medioevo cabbalisti­co. Con la differenza che loro, i maestri dell’età di mezzo, avevano occhi abituati all’oscurità, e li aguzzavano per vedere anche la luce nera.

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