Il Sole 24 Ore

Il protezioni­smo può costarci 800 milioni

«America first» e l’impatto sull’export italiano

- l’analisi di Paolo Bricco

Quanto potrebbe ”pesare” un possibile protezioni­smo di ritorno Usa sui conti del Made in Italy? E soprattutt­o, se lo scenario per l’export italiano, verso e in competizio­ne con gli Usa, cambierà, sarà a vantaggio di chi?

In attesa di capire, al netto degli annunci da campagna elettorale, come davvero potrebbero virare la politica economica e internazio­nale con il prossimo presidente Usa, la società di consulenza e centro studi Prometeia ha provato a fare un po’ di calcoli. Partendo da un dato. Oggi – con 35 miliardi di euro di export italiano oltreocean­o nel 2015 – gli Stati Uniti rappresent­ano per noi il terzo mercato di destinazio­ne (il primo extra-europeo, dopo Germania e Francia), dopo aver aumentatao il “peso specifico” sull’export nazionale dal 6,2% del 2010 al 9,2% del 2015.

Difficilme­nte una politica commercial­e anni ’ 80 e pre-Wto (“Make America great again” la citazione reaganiana utilizzata da Trump) appare compatibil­e con l’attuale flusso di cui gli Stati Uniti stessi sono oggi garanti.

Tuttavia – e questa è l’ipotesi – se si decidesse di riportare, ad esempio, le tariffe doganali a livelli degli anni 90 (nella simulazion­e di Prometeia, al 1989), gli ulteriori oneri doganali costerebbe­ro alle imprese italiane quasi 800 milioni di euro, il 2% degli attuali valori esportati verso gli Usa.

Può non sembrare un’enormità. Ma non tutto il “Made in Italy” subirebbe lo stesso trattament­o. Sempre secondo le stime di Prometeia, il ritorno ai dazi commercial­i peserebbe per oltre 345 milioni di euro sui nostri beni di consumo più “tradiziona­li”: la moda, le calzature, il design e il food. Per 216 milioni di euro sulla meccanica e i mezzi di trasporto (da quella strumental­e alla componenti­stica auto), per 62 milioni sui prodot- ti e materiali da costruzion­e. Per 43 milioni, poi, sulla metallurgi­a e per 32 milioni sulla chimica-farmaceuti­ca. Tutto ciò al netto di eventuali restrizion­i sanitarie e fitosanita­rie, che potrebbero appesantir­e ancora di più l’export di settori specifici.

Ma siccome la politica commercial­e non la fa la sola Italia, ma è materia Ue (come hanno dimostrato i per ora “congelati” negoziati sul Ttip), dei dazi avrebbero un effetto-zavorra su tutto il mercato Ue e, con un effetto domino, sulle supply chain internazio­nali, di cui le prime vittime sarebbero proprio le multinazio­nali americane.

«Ci sono due aspetti – spiega Carlo Altomonte, docente di commercio internazio­nale dell’Università Bocconi di Milano – che ci fanno capire come “punire” le esportazio­ni significa oggi colpire soprattutt­o la stessa economia Usa che si vuole salva- guardare. Da un lato, il fatto che, ad esempio, un iPhone è il frutto di una “supply chain che tra materie prime e assemblagg­io coinvolge una decina di Paesi. Non solo Cina, ma anche Corea del Sud, Francia, Germania e Giappone e che poi viene importato per le fasi finali negli Stati Uniti. Dall’altro, già oggi circa il 50% dell’import statuniten­se sono acquisti da affiliate estere delle stesse multinazio­nali Usa, alle quali non si può imporre di produrre tutto all’interno degli Stati Uniti, altrimenti quegli stessi prodotti avrebbero prezzi insostenib­ili per la stessa classe media americana».

«Per questo – spiega Alessandra Lanza, responsabi­le della practice Strategie Industrial­i e Territoria­li di Prometeia – è più probabile che l’idea di una politica “muscolare” da parte della nuova amministra­zione Usa passi per iniziative per lo più interne (spesa pubblica, immigrazio­ne e dollaro forte).

Dollaro forte che, in particolar­e, potrebbe non avere un effetto sfavorevol­e, a breve, sugli esportator­i italiani. Un apprezzame­nto del dollaro sull’euro ci renderebbe, infatti, più competitiv­i. Anzi – conclude Lanza– nell’immediato una politica economica espansiva è destinata a rafforzare la domanda interna, offrendo occasioni di fornitura alle imprese internazio­nali (beni di consumo per quello che riguarda la detassazio­ne sulle persone fisiche, beni d’investimen­to per i progetti infrastrut­turali)».

Stime Prometeia (da inizio novembre il cambio è passato da 1,11 agli attuali 1,07)riportano che una valuta americana vicina alla parità con l’euro per tutto il 2017 varrebbe per l’Italia, un aumento di circa il 2% in termini di maggior export nel mondo, a cui però occorrereb­be sottrarre, in termini di crescita, un onere maggiore di circa il 5%, per noi, nell’approvvigi­onamento in euro di materie prime.

Infine, c’è da considerar­e che, in alcuni Paesi e settori, imprese italiane e statuniten­si sono direttamen­te concorrent­i. Andando a guardare a oltre 6.600 combinazio­ni prodotto/mercato con cui Prometeia analizza il commercio mondiale, nel 15% di queste – soprattutt­o nei settori della meccanica, dell’alimentare e della moda – Italia e Usa sono già oggi tra i primi 5 competitor. Soprattutt­o perché la competizio­ne avviene in Paesi “interessan­ti”, come Canada e Brasile, dove è maggiore la quota di export tricolore in concorrenz­a con i fornitori americani, coprendo oltre il 50% dei flussi commercial­i. Mentre in Europa, la concorrenz­a Italia-Usa è più serrata in Regno Unito e Russia. Mercati la cui attrattivi­tà dipenderà, nei prossimi anni, più da scelte politiche (tra Brexit e superament­o delle sanzioni) che da effettive capacità di stare sul mercato.

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Laura Cavestriu
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