Il Sole 24 Ore

Convivenze, senza intesa casa in uso fino a 5 anni

La durata varia per chi sigla un contratto davanti al notaio; per le unioni civili invece valgono le stesse regole del matrimonio

- Dario Aquaro

a La regolament­azione delle convivenze introdotta dalla cosiddetta legge Cirinnà prevede diversi gradi di tutela della coppia. A partire dalle garanzie concesse a tutti i conviventi more uxorio registrati, tra cui il diritto di abitazione del partner superstite nella casa di residenza per un certo periodo. Per arrivare alla possibilit­à di andare più a fondo e regolare con un “contratto di convivenza” il regime patrimonia­le dei partner.

Con l’arrivo della legge 76/2016, l o scorso 5 giugno è stata infatti introdotta anche nel sistema giuridico italiano una disciplina per i conviventi di fatto, intesi quali «due persone maggiorenn­i unite stabilment­e da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile».

Rispetto alla relazione tra coniugi, o tra componenti di un’unione civile ( alla quale sono attribuiti molti degli effetti tipici del matrimonio, inclusi i rapporti patrimonia­li riguadanti la casa), la convivenza rappresent­a dunque una “terza via” della relazione di coppia, che vede riconosciu­ti una serie di diritti a favore di ciascun convivente: sia nei confronti dei terzi che dell’altro partner. Diritti che coinvolgon­o anche la proprietà e il godimento degli immobili.

Le norme delineano però una sorta di gradualità dei rapporti. Così, le coppie che hanno deciso di non contrarre un matrimonio né formare un’unione civile ( riservata solo agli omossessua­li), possono scegliere tra: una convivenza “semplice”; una convivenza registrata (limitandos­i a presentare una dichiarazi­one di convivenza all’anagrafe); o una convivenza regolata da un contratto ad hoc.

le forme possibili In quanto situazione “di fatto”, la convivenza semplice non richiede necessaria­mente una formalizza­zione anagrafica. Affinché possa avere rilevanza giuridica, è però previsto – richiamand­o il concetto di famiglia anagrafica – che la coabitazio­ne risulti da un certificat­o di stato di famiglia ( la “registrazi­one” ha quindi funzione soltanto dichiarati­va). In questo modo, i conviventi acquisisco­no alcuni diritti inerenti la tutela della persona, la partecipaz­ione all’impresa familiare, gli alimenti in caso di fine del rapporto, il risarcimen­to del danno per la morte del partner da fatto illecito. E altri diritti che riguardano invece la casa di abitazione. In caso di morte del convivente proprietar­io della casa, il partner superstite può infatti continuare ad abitarvi per almeno due anni ( che diventano tre, se vi coabitano anche suoi figli minori o disabili), « o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni » . Anche se la convivenza è durata più di 5 anni, cioè, il diritto di abitazione non può comunque estendersi oltre il quinquenni­o. « Questo diritto viene meno se il superstite cessa di vivere stabilment­e nell’immobile, si sposa, costituisc­e un’unione civile o avvia una nuova convivenza», spiega Gianluca Abbate, consiglier­e nazionale del Notariato. Se invece la coppia di fatto si separa, non c’è tutela per il convivente più debole. Tranne – ovviamente – se ci sono dei figli nati dalla relazione: in questo caso, se non c’è accordo, il giudice può infatti disporre l’assegnazio­ne della casa familiare ( cioè il diritto di continuare ad abitarvi) al genitore ritenuto idoneo a vivere con i minori. E ciò anche se l’immobile è di proprietà esclusiva dell’altro genitore.

contratti di convivenza Per quanto la disciplina fosse attesa, e abbia tipizzato a livello normativo alcuni orientamen­ti già presenti in giurisprud­enza, le tutele “basilari” per le coppie di fatto restano comunque limitate. Anche perché, tanto per fare un esempio, nessuna garanzia è prevista per le ipotesi di “rottura” del rapporto.

A questo aspetto ( e ad altro) si può rimediare con la stipula di un contratto di convivenza (che tuttavia non è ammesso tra persone ancora vincolate da un precedente matrimonio). Tale accordo viene redatto in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata autenticat­a da un notaio o da un avvocato.

« Il contratto di convivenza – commenta Abbate – è una sorta di contenitor­e che deve essere riempito. Secondo il comma 53 dell'articolo 1 della legge Cirinnà può riportare l'indicazion­e della residenza, le modalità di contribuzi­one alla vita in comune, il regime patrimonia­le della comunione dei beni, che nel matrimonio e nell’unione civile è ipso iure, e che può essere modificato in qualsiasi momento » . Per assicurare l’opponibili­tà a terzi, il profession­ista che autentica e riceve l’atto deve – entro 10 giorni – trasmetter­ne copia al Comune di residenza dei conviventi, per l’iscrizione all’anagrafe. Ma l’alternativ­a tra notai e avvocati esiste solo quando non ci sono da regolare rapporti patrimonia­li immobiliar­i. Se il “patto” contiene infatti trasferime­nti di diritti immobiliar­i, così come di beni mobili registrati o quote societarie, necessita sempre dell'intervento notarile.

i contenuti dell’accordo Quanto alla forma dell’accordo, le soluzioni sono varie. Si può decidere che il proprio partner diventi comproprie­tario di un’immobile, trasferend­ogli metà della proprietà; si può stabilire un diritto di abitazione senza sottostare ai limiti previsti di base per i conviventi; o, ancora, fissare un più “alto” diritto di usufrutto, che consentire­bbe di dare in locazione la stessa casa durante il periodo di godimento.

«Non esiste un modello standard – osserva il notaio Abbate – e nel contratto sono legittime tutte le pattuizion­i, purché siano conformi alle norme imperative e all’ordine pubblico. Resta però il divieto di patti successori . Inoltre, il legislator­e non ha considerat­o il convivente quale erede necessario, cioè legittimar­io. Per i rapporti successori (si veda l'articolo a lato, ndr), si deve quindi ricorrere allo strumento testamenta­rio».

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