Convivenze, senza intesa casa in uso fino a 5 anni
La durata varia per chi sigla un contratto davanti al notaio; per le unioni civili invece valgono le stesse regole del matrimonio
a La regolamentazione delle convivenze introdotta dalla cosiddetta legge Cirinnà prevede diversi gradi di tutela della coppia. A partire dalle garanzie concesse a tutti i conviventi more uxorio registrati, tra cui il diritto di abitazione del partner superstite nella casa di residenza per un certo periodo. Per arrivare alla possibilità di andare più a fondo e regolare con un “contratto di convivenza” il regime patrimoniale dei partner.
Con l’arrivo della legge 76/2016, l o scorso 5 giugno è stata infatti introdotta anche nel sistema giuridico italiano una disciplina per i conviventi di fatto, intesi quali «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile».
Rispetto alla relazione tra coniugi, o tra componenti di un’unione civile ( alla quale sono attribuiti molti degli effetti tipici del matrimonio, inclusi i rapporti patrimoniali riguadanti la casa), la convivenza rappresenta dunque una “terza via” della relazione di coppia, che vede riconosciuti una serie di diritti a favore di ciascun convivente: sia nei confronti dei terzi che dell’altro partner. Diritti che coinvolgono anche la proprietà e il godimento degli immobili.
Le norme delineano però una sorta di gradualità dei rapporti. Così, le coppie che hanno deciso di non contrarre un matrimonio né formare un’unione civile ( riservata solo agli omossessuali), possono scegliere tra: una convivenza “semplice”; una convivenza registrata (limitandosi a presentare una dichiarazione di convivenza all’anagrafe); o una convivenza regolata da un contratto ad hoc.
le forme possibili In quanto situazione “di fatto”, la convivenza semplice non richiede necessariamente una formalizzazione anagrafica. Affinché possa avere rilevanza giuridica, è però previsto – richiamando il concetto di famiglia anagrafica – che la coabitazione risulti da un certificato di stato di famiglia ( la “registrazione” ha quindi funzione soltanto dichiarativa). In questo modo, i conviventi acquisiscono alcuni diritti inerenti la tutela della persona, la partecipazione all’impresa familiare, gli alimenti in caso di fine del rapporto, il risarcimento del danno per la morte del partner da fatto illecito. E altri diritti che riguardano invece la casa di abitazione. In caso di morte del convivente proprietario della casa, il partner superstite può infatti continuare ad abitarvi per almeno due anni ( che diventano tre, se vi coabitano anche suoi figli minori o disabili), « o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni » . Anche se la convivenza è durata più di 5 anni, cioè, il diritto di abitazione non può comunque estendersi oltre il quinquennio. « Questo diritto viene meno se il superstite cessa di vivere stabilmente nell’immobile, si sposa, costituisce un’unione civile o avvia una nuova convivenza», spiega Gianluca Abbate, consigliere nazionale del Notariato. Se invece la coppia di fatto si separa, non c’è tutela per il convivente più debole. Tranne – ovviamente – se ci sono dei figli nati dalla relazione: in questo caso, se non c’è accordo, il giudice può infatti disporre l’assegnazione della casa familiare ( cioè il diritto di continuare ad abitarvi) al genitore ritenuto idoneo a vivere con i minori. E ciò anche se l’immobile è di proprietà esclusiva dell’altro genitore.
contratti di convivenza Per quanto la disciplina fosse attesa, e abbia tipizzato a livello normativo alcuni orientamenti già presenti in giurisprudenza, le tutele “basilari” per le coppie di fatto restano comunque limitate. Anche perché, tanto per fare un esempio, nessuna garanzia è prevista per le ipotesi di “rottura” del rapporto.
A questo aspetto ( e ad altro) si può rimediare con la stipula di un contratto di convivenza (che tuttavia non è ammesso tra persone ancora vincolate da un precedente matrimonio). Tale accordo viene redatto in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato.
« Il contratto di convivenza – commenta Abbate – è una sorta di contenitore che deve essere riempito. Secondo il comma 53 dell'articolo 1 della legge Cirinnà può riportare l'indicazione della residenza, le modalità di contribuzione alla vita in comune, il regime patrimoniale della comunione dei beni, che nel matrimonio e nell’unione civile è ipso iure, e che può essere modificato in qualsiasi momento » . Per assicurare l’opponibilità a terzi, il professionista che autentica e riceve l’atto deve – entro 10 giorni – trasmetterne copia al Comune di residenza dei conviventi, per l’iscrizione all’anagrafe. Ma l’alternativa tra notai e avvocati esiste solo quando non ci sono da regolare rapporti patrimoniali immobiliari. Se il “patto” contiene infatti trasferimenti di diritti immobiliari, così come di beni mobili registrati o quote societarie, necessita sempre dell'intervento notarile.
i contenuti dell’accordo Quanto alla forma dell’accordo, le soluzioni sono varie. Si può decidere che il proprio partner diventi comproprietario di un’immobile, trasferendogli metà della proprietà; si può stabilire un diritto di abitazione senza sottostare ai limiti previsti di base per i conviventi; o, ancora, fissare un più “alto” diritto di usufrutto, che consentirebbe di dare in locazione la stessa casa durante il periodo di godimento.
«Non esiste un modello standard – osserva il notaio Abbate – e nel contratto sono legittime tutte le pattuizioni, purché siano conformi alle norme imperative e all’ordine pubblico. Resta però il divieto di patti successori . Inoltre, il legislatore non ha considerato il convivente quale erede necessario, cioè legittimario. Per i rapporti successori (si veda l'articolo a lato, ndr), si deve quindi ricorrere allo strumento testamentario».