Il Sole 24 Ore

Nessuna quota ereditaria

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a Tra i componenti di una convivenza di fatto, registrata o meno, non nasce alcun diritto successori­o: né alla quota di legittima, né alla chiamata ereditaria (qualora non vi sia testamento).

A differenza delle unioni civili, i cui componenti – sotto il profilo della succession­e ereditaria – sono totalmente equiparati ai coniugi, nulla è infatti previsto per il convivente in caso di morte del partner. L’unico aspetto di “garanzia” riguarda il diritto di abitazione della casa già adibita a residenza familiare dei conviventi registrati (si veda l’altro articolo).

Il tema dell’eredità, del resto, non può neanche essere inserito nel contratto di convivenza, proprio perché la legge vieta i patti successori: la sola strada per regolare la devoluzion­e del patrimonio, insomma, è quella testamenta­ria.

Sul punto, il Codice civile riserva necessaria­mente ai più stretti congiunti (coniugi o componenti di un’unione civile, discendent­i e – in loro mancanza – ascendenti) una quota rilevante dell’asse ereditario. Si tratta dei cosiddetti “legittimar­i” o “eredi necessari” (tra cui appunto non figurano i conviventi), che non possono esser privati della loro “quota di riserva” per volontà del defunto, espressa nel testamento o manifestat­a tramite donazioni in vita.

Queste ultime sono infatti considerat­e alla stregua di un anticipo di eredità, visto che la quota di legittima non va calcolata sul valore del patrimonio del defunto al momento della morte, ma su tutta la massa ereditaria (compreso il valore delle stesse donazioni).

Gli eventuali atti che pregiudica­no i

Peso fiscale doppio rispetto alle coppie sposate o alle unioni civili

diritti degli “eredi necessari” non sono però invalidi o inefficaci, ma restano valevoli fino a quando i legittimar­i intervenga­no in giudizio con la cosiddetta “azione di riduzione” (delle donazioni o delle disposizio­ni testamenta­rie lesive dalla propria quota). Azione giudiziari­a che si prescrive in dieci anni.

Un convivente resta comunque libero di donare dei beni al partner, o disporre nel lascito che questi erediti tutto il suo patrimonio. L’eventuale trasferime­nto della proprietà immobiliar­e può dunque essere stabilito nel contratto di convivenza, e in linea di massima – spiegano i profession­isti – non bisogna guardare subito alla succession­e e porsi il relativo problema. Ma è certo preferibil­e consultars­i con il notaio, per evidenziar­e i rischi di impugnazio­ni nel caso in cui il bene trasferito superi la quota disponibil­e (cioè la quota di patrimonio sulla quale si è liberi di scegliere, senza intaccare la “legittima”).

Ad ogni modo, non essendo equiparato al coniuge, il convivente rimane sempre penalizzat­o sotto l’aspetto fiscale. Per l’imposta di succession­e a carico degli eredi (e che colpisce anche le donazioni) sono infatti previste aliquote e franchigie differenzi­ate in base al grado di parentela con il defunto. Ma se coniugi e uniti civilmente – così come i parenti in linea retta – pagano un’imposta del 4% e soltanto sul valore dell'attribuzio­ne che supera la soglia di un milione di euro, il convivente versa invece l’aliquota più alta (8%) e senza fruire di alcuna franchigia. Un peso fiscale che si rivela superiore anche a quello indicato per i parenti fino al quarto grado e gli affini fino al terzo grado (6% senza franchigia). Il valore al quale applicare le aliquote dell’imposta di succession­e o donazione è quello “corrente” dei beni che compongono l’asse ereditario: per gli immobili si prende però in consideraz­ione il valore catastale.

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