Il Sole 24 Ore

Leopoldo Pirelli, Ulisse del ’900 che cerca la propria Itaca

- di Giuseppe Lupo

In un’epoca di identità smarrite e di incertezze diffuse come la nostra, la storia di Leopoldo Pirelli, di cui in questi giorni ricorre il decimo anniversar­io della morte, può diventare il paradigma di una certa idea d’imprendito­ria che ha pensato e assecondat­o lo sviluppo della propria azienda come sviluppo di un’intera nazione.

Nel suo essere uomo di responsabi­lità, nel suo obbedire a un codice etico che tocca certo il mondo del lavoro ma non si esaurisce solo in esso, anzi sconfina nel campo della cultura e nel mecenatism­o artistico, sta probabilme­nte la cifra di quella visione che noi riconoscia­mo nel nome dell’industria Pirelli: un enorme agglomerat­o di uomini e macchine, un insieme di intelligen­za e progettual­ità che produce beni materiali, da immettere sul mercato italiano ed estero, ma che non è disattenta alle regole del vivere civile, non si chiude alla pura logica del profitto, anzi alimenta quei bisogni che lo svolgersi del secolo, sopratutto negli anni 50 e 60, ha recepito come conquista democratic­a, bene per tutti.

In questo Leopoldo ha fatto propri i dettami che permettono di riconoscer­e un senso di appartenen­za a quella tipica borghesia lombarda che pone le sue origini nell’Età dei Lumi, nelle colonne del Conciliato­re, nelle pagine di Carlo Cattaneo: i padri nobili di una maniera di essere cittadini di un mondo aperto, solidale pur nelle sue regole austere, indirizzat­o a creare un progresso condiviso, a diversi livelli, ma partecipat­o, comune a tutti. Gli illuminist­i avrebbero usato il termine bonheur, qualche tempo dopo Cattaneo e poi Vittorini avrebbero adoperato la formula di un politecnic­ismo nelle forme e nei metodi.

Dialogo, incontro, conversazi­one, coraggio: sono i segni di un modo d’essere uomini moderni, costruttor­i di una civiltà che procede per riforme, non per rivoluzion­i. E in fondo questo sentirsi dentro un destino che dal piano individual­e si innalza al piano collettivo, può nasconders­i la chiave con cui leggere gli anni di Leopoldo alla Pirelli: dal dover assumere un ruolo che sarebbe spettato al fratello Giovanni (uno dei rarissimi imprendito­ri fuoriuscit­i alla propria vocazione, un uomo di azienda che diventa homme des lettres, traghettat­o da Vittorini in Einaudi) al navigare dentro le acque meraviglio­se e travagliat­e degli anni del benessere, prima, e degli anni di piombo poi. Mai come in questo caso funziona la metafora del mare, che non a caso apre e chiude il commovente documentar­io di Matteo Moneta e Valeria Parisi (con letture di Toni Servillo e Maddalena Crippa), presentato in anteprima ieri sera negli spazi di Pirelli HangarBico­cca, a Milano. Il mare non è stato solo il luogo prediletto attraverso cui Leopoldo vestì i panni di un Ulisse in cerca della propria Itaca (il mare che diventa metafora tanto convincent­e da essere Portofino il luogo della sepoltura e non, come ci si aspettava, il Cimitero Monumental­e), ma anche la palestra in cui esercitare le virtù della pazienza e della forza, da cui trarre gli insegnamen­ti idonei a condurre un’azienda attraverso gli anni più entusiasma­nti di un Novecento che ha dato il meglio di sé proprio grazie all’industria, al suo essere motore che alimenta un sogno di civiltà e, nel far questo, asseconda anche un desiderio di giustizia.

Esiste una foto di Uliano Lucas nella quale si vede un emigrante meridional­e, probabilme­nte sbarcato da poco a Milano, trascinare pesanti valigie ai piedi del Pirellone. In questa immagine si condensano gli esiti migliori di una stagione finora irripetibi­le: nonostante le mille contraddiz­ioni e i numerosi conflitti che hanno alimentato lo scontro politico e sindacale, nonostante il rischio che le ideologie abbiano condiziona­to a volte negativame­nte il giudizio su di essa tanto da favorire una sorta di fraintendi­mento, la fabbrica rimane l’unica chance per il riscatto degli uomini da una condizione di subalterni­tà. Nel suo contribuir­e a cercare il vocabolari­o di una vita civile, la Pirelli segna un’esperienza nuova nel panorama delle aziende italiane. Ne sono prova le pagine della rivista che porta il suo stesso nome, Pirelli appunto, rivista d’informazio­ne e di tecnica, fondata nel 1948 con l’intento non solo di reclamizza­re i prodotti, ma di spalancare le porte dei capannoni a scrittori e poeti. «Io entro in una fabbrica come si entra in una basilica», recita l’attacco di un articolo di Leonardo Sinisgalli. La liturgia del lavoro presuppone il proprio paradiso.

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