Leopoldo Pirelli, Ulisse del ’900 che cerca la propria Itaca
In un’epoca di identità smarrite e di incertezze diffuse come la nostra, la storia di Leopoldo Pirelli, di cui in questi giorni ricorre il decimo anniversario della morte, può diventare il paradigma di una certa idea d’imprenditoria che ha pensato e assecondato lo sviluppo della propria azienda come sviluppo di un’intera nazione.
Nel suo essere uomo di responsabilità, nel suo obbedire a un codice etico che tocca certo il mondo del lavoro ma non si esaurisce solo in esso, anzi sconfina nel campo della cultura e nel mecenatismo artistico, sta probabilmente la cifra di quella visione che noi riconosciamo nel nome dell’industria Pirelli: un enorme agglomerato di uomini e macchine, un insieme di intelligenza e progettualità che produce beni materiali, da immettere sul mercato italiano ed estero, ma che non è disattenta alle regole del vivere civile, non si chiude alla pura logica del profitto, anzi alimenta quei bisogni che lo svolgersi del secolo, sopratutto negli anni 50 e 60, ha recepito come conquista democratica, bene per tutti.
In questo Leopoldo ha fatto propri i dettami che permettono di riconoscere un senso di appartenenza a quella tipica borghesia lombarda che pone le sue origini nell’Età dei Lumi, nelle colonne del Conciliatore, nelle pagine di Carlo Cattaneo: i padri nobili di una maniera di essere cittadini di un mondo aperto, solidale pur nelle sue regole austere, indirizzato a creare un progresso condiviso, a diversi livelli, ma partecipato, comune a tutti. Gli illuministi avrebbero usato il termine bonheur, qualche tempo dopo Cattaneo e poi Vittorini avrebbero adoperato la formula di un politecnicismo nelle forme e nei metodi.
Dialogo, incontro, conversazione, coraggio: sono i segni di un modo d’essere uomini moderni, costruttori di una civiltà che procede per riforme, non per rivoluzioni. E in fondo questo sentirsi dentro un destino che dal piano individuale si innalza al piano collettivo, può nascondersi la chiave con cui leggere gli anni di Leopoldo alla Pirelli: dal dover assumere un ruolo che sarebbe spettato al fratello Giovanni (uno dei rarissimi imprenditori fuoriusciti alla propria vocazione, un uomo di azienda che diventa homme des lettres, traghettato da Vittorini in Einaudi) al navigare dentro le acque meravigliose e travagliate degli anni del benessere, prima, e degli anni di piombo poi. Mai come in questo caso funziona la metafora del mare, che non a caso apre e chiude il commovente documentario di Matteo Moneta e Valeria Parisi (con letture di Toni Servillo e Maddalena Crippa), presentato in anteprima ieri sera negli spazi di Pirelli HangarBicocca, a Milano. Il mare non è stato solo il luogo prediletto attraverso cui Leopoldo vestì i panni di un Ulisse in cerca della propria Itaca (il mare che diventa metafora tanto convincente da essere Portofino il luogo della sepoltura e non, come ci si aspettava, il Cimitero Monumentale), ma anche la palestra in cui esercitare le virtù della pazienza e della forza, da cui trarre gli insegnamenti idonei a condurre un’azienda attraverso gli anni più entusiasmanti di un Novecento che ha dato il meglio di sé proprio grazie all’industria, al suo essere motore che alimenta un sogno di civiltà e, nel far questo, asseconda anche un desiderio di giustizia.
Esiste una foto di Uliano Lucas nella quale si vede un emigrante meridionale, probabilmente sbarcato da poco a Milano, trascinare pesanti valigie ai piedi del Pirellone. In questa immagine si condensano gli esiti migliori di una stagione finora irripetibile: nonostante le mille contraddizioni e i numerosi conflitti che hanno alimentato lo scontro politico e sindacale, nonostante il rischio che le ideologie abbiano condizionato a volte negativamente il giudizio su di essa tanto da favorire una sorta di fraintendimento, la fabbrica rimane l’unica chance per il riscatto degli uomini da una condizione di subalternità. Nel suo contribuire a cercare il vocabolario di una vita civile, la Pirelli segna un’esperienza nuova nel panorama delle aziende italiane. Ne sono prova le pagine della rivista che porta il suo stesso nome, Pirelli appunto, rivista d’informazione e di tecnica, fondata nel 1948 con l’intento non solo di reclamizzare i prodotti, ma di spalancare le porte dei capannoni a scrittori e poeti. «Io entro in una fabbrica come si entra in una basilica», recita l’attacco di un articolo di Leonardo Sinisgalli. La liturgia del lavoro presuppone il proprio paradiso.