Giustizia, la babele dei big-data
Per troppi anni i dati sull’efficienza della giustizia sono stati ignorati o sottovalutati a beneficio di attacchi politici micidiali contro un’istituzione fondamentale per la tenuta democratica e la crescita economica del Paese.
Ma quando il clima è cambiato, sul dato statistico si è scaricata l’ossessione di dimostrare a tutti i costi l’«inversione di tendenza». L’inaugurazione dell’anno giudiziario è emblematica: dati raccolti da fonti diverse e con altrettanto diverse metodologie, variamente analizzati e riferiti a periodi temporali non omogenei, si affollano e sovrappongono - prima, durante e dopo - in relazioni, tabelle, studi, nei quali è quasi impossibile orientarsi.
In Cassazione confluiscono i dati nazionali, cioè di tutti gli uffici giudiziari, dal 1° luglio al 30 giugno dell’anno appena trascorso. Alcuni dati raccolti dal ministero della Giustizia, però, si riferiscono all’anno solare, che non sempre è quello trascorso. A volte ci si ferma al semestre precedente. Poi ci sono i dati delle Istituzioni internazionali, come la Cepej, la Commissione per la misurazione dell’efficienza della giustizia istituita dal Consiglio d’Europa, che però si fermano a due anni prima l’elaborazione del periodico Rapporto, per cui quello del 2016 fotografa la situazione del 2014. E così via... Un profluvio di «big data» che ancora sfugge a un’interpretazione univoca.
Come si legge nell’articolo di Vittorio Nuti, la relazione integrale del primo presidente della Cassazione riporta che al 30 giugno 2016 l’arretrato civile era di 4.032.582 cause (4.221.949 l’anno prima); nella relazione del ministro della Giustizia, invece, si dice che sono «circa 3.800.000» (3.820.935 nelle tabelle), precisando che il dato è al netto dell’attività del giudice tutelare. Che - stando sempre alle tabelle - è quantificata in 395.335 fascicoli pendenti, per cui il totale delle pendenze dovrebbe essere di 4.216.270 cause, superiore al dato della Cassazione e con uno scostamento insignificante rispetto al 2015. Il ministro enfatizza comprensibilmente il trend positivo, misurandolo dal 2013, quando le pendenze erano 5.200.000, ma il raffronto con con il 2015 segnala di fatto una stasi. E forse varrebbe la pena indagarne le cause.
Idem per le prescrizioni: la relazione-Canzio ne registra 139.488 nel 2016 e parla di «apprezzabile aumento» rispetto all’anno scorso - quando la relazione ne registrava 132.269 anche se le tabelle di quest’anno dicono 132.739 - mentre Orlando parla di «leggero rialzo».
Non fa eccezione la Cassazione: l’anno scorso Canzio denunciò pubblicamente il «record storico» dei circa 105mila ricorsi civili pendenti, record superato quest’anno con 106.862 cause. Allora disse che il numero era «impronunciabile», quest’anno sottolinea positivamente, invece, «il contenimento della crescita della pendenza».
Si potrebbe continuare. Al di là delle valutazioni, i dati dovrebbero essere più univoci. Del resto, queste discrasie spiegano perché quando dalla Cassazione ci si sposta, due giorni dopo, nelle Corti d’appello, il quadro complessivo sembra sempre più cupo. E l’inversione di tendenza non si percepisce più.