Il nuovo bivio Pd di fine legislatura
L’inizio della legislatura è stato segnato dal “tradimento” dei 101 e dalle dimissioni di Bersani. A un anno dalla fine, il Pd ha davanti un nuovo bivio.
Le due stagioni non sono esattamente sovrapponibili ma, sia l’inizio che i titoli di coda di questa legislatura, hanno degli aspetti per certi versi simili. Tutto è cominciato nel 2013 con una sconfitta elettorale di Pierluigi Bersani anche se il Pd, grazie al Porcellum, prese il premio di maggioranza con cui riuscì a portare in Parlamento poco più di 400 tra deputati a senatori. Il risultato però non consentì di formare un Governo di centro-sinistra e le votazioni per la scelta del nuovo capo dello Stato diventarono l’occasione per vendette trasversali. E per una clamorosa “sfiducia” al segretario che infatti si dimise dopo aver preso atto che non aveva più dietro il “suo” gruppo parlamentare.
Quello stesso gruppo ha poi votato la rielezione di Giorgio Napolitano, poi le larghe intese con il premier Letta e poi la fiducia a Matteo Renzi nel 2014 e infine a Paolo Gentiloni nel dicembre 2016. Nel frattempo le maggioranze sono diventate minoranze – quella di Bersani, appunto – e le componenti principali del partito sono confluite nell’area dei renziani. Oggi, questo “viaggio” – in molti tratti tortuoso - è arrivato a un nuovo bivio: seguire o no Renzi sulla corsa al voto a giugno.
Anche adesso, come fu nel 2013, il Pd è reduce da una sconfitta referendaria, anche ora il tema è se proseguire nella legislatura oppure richiedere un voto agli italiani. È vero che questa scelta non è stata ancora messa sul tavolo, in modo chiaro, da Matteo Renzi e che tutti aspettano quello che dirà sabato alla convention di Rimini. Ma fare un passo verso la direzione delle urne diventa un test delicato per l’attuale segretario che potrebbe – pure lui – correre il rischio di lanciarsi in una battaglia e poi girarsi e trovare solo la sua pattuglia di fedelissimi.
Raccontano, per esempio, che in questi giorni ci sia molto nervosismo nel gruppo parlamentare. E che non ci si accontenta delle dichiarazioni sui giornali o delle convention ma si vorrebbe, alle Camere, un confronto più stringente sul tema del voto e della legge elettorale per cominciare a contare i fa- vorevoli e contrari su quale bivio imboccare. La parola d’ordine che regna in Commissione Affari costituzionali della Camera è, infatti, avanti con calma. Prendere tempo, attendere di leggere le motivazioni della sentenza della Consulta per non precipitare i fatti e non spianare la strada al voto. Insomma, la sensazione è che non ci sia più una delega in bianco al segretario come è accaduto in tutta la vicenda che dall’Italicum è passata attraverso la riforma costituzionale ed è finita nella sconfitta referendaria.
Il tema di fondo non è solo il calcolo dei rischi di una nuova avventura ma anche le conseguenze delle poche cose sicure. E una è certa: che, venuto meno il premio del Porcel- lum, ci sono almeno 100 parlamentari Pd che non torneranno in Parlamento. Si tratterebbe quindi di chiedere a loro un sacrificio prematuro, una fine anticipata che mette in moto molti nervosismi all’interno del gruppo.
Come all’inizio della legislatura, anche questo scorcio finale presenta qualche insidia per chi – oggi - guida il Pd ma potrebbe scoprire di non governare il gruppo parlamentare.