Il Sole 24 Ore

Upb: troppa spesa nei «costi standard» dei comuni

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pTutto potevano aspettarsi a suo tempo i tifosi del federalism­o, tranne che l’oggetto dei loro desideri avrebbe finito per premiare più di ogni altro il Comune di Roma. Eppure a conti fatti è proprio questo il risultato del passaggio dalla spesa storica ai fabbisogni standard, cioè i parametri che dovrebbero misurare il “prezzo giusto” dei servizi locali e che hanno rappresent­ato l’architrave del dibattito sulla trasformaz­ione federale dello Stato. L’obiettivo del cambio di regole è quello di cancellare gli sprechi della «spesa storica» per abbracciar­e l’efficienza degli standard, per assicurare a ogni sindaco i fondi necessari a garantire i servizi al costo corretto. Nella finanza pubblica italiana, però, quasi nulla è quel che sembra, e quando i principi si trasfor- mano in numeri le certezze cedono il passo ai dubbi.

Molti, per esempio, sono fioriti nella testa degli addetti ai lavori quando lunedì scorso il Viminale ha pubblicato i dati sulla distribuzi­one del «fondo di solidariet­à comunale» del 2017, e in particolar­e dei 2,35 miliardi (finanziati dall’Imu) con cui si prova a ridurre la distanza fra la ricchezza fiscale di ogni territorio e i soldi che servono per i servizi locali. Questa distribuzi­one, è la novità dell’anno, avviene con un peso crescente degli standard, e ha portato un aumento del 12% del fondo a Roma e un taglio del 10,2% a Milano (si veda Il Sole 24 Ore di martedì).Curioso.

A spiegarne la cause interviene ora l’Ufficio parlamenta­re del bilancio, l’ Authority sui conti pubblici che in un documentat­o dossier pubblicato questa mattina ha ricostruit­o le vicende di questo federalism­o comunale individuan­done i “tradimenti” e i loro effetti a regime. Partiamo dalla fine: se i parametri attuali, che oggi guidano il 40% del fondo di solidariet­à, fossero spinti fino al 100%, secondo i calcoli dell’Upb i grandi Comuni del Centro, guidati da Roma, vedrebbero aumentare di quasi un quarto le proprie risorse storiche mentre i piccoli Comuni subirebbe- ro tagli medi del 17 per cento.

Come mai? Il problema è parecchio tecnico ma i suoi ingredient­i principali meritano di essere visti per capire come le parole d’ordine della politica cambiano aspetto quando si trasforman­o in numeri. Il vizio di fondo secondo i tecnici dell’Upb è uno: in Italia non sono mai stati stabiliti i «livelli essenziali delle prestazion­i», cioè in pratica gli obiettivi minimi dei servizi che i Comuni dovrebbero garantire in fatto di welfare locale, ambiente e così via. Ma se manca questo parametro, come vengono misurati gli standard?

Un primo tentativo è stato portato avanti negli anni scorsi partendo dalla media delle spese per ogni funzione registrate nelle diverse categorie di Comuni (piccoli, grandi, montani, in pia- nura e così via) ma dava risultati paradossal­i: un Comune che non ha gli asili nido spende meno di un ente che invece offre un’ampia copertura sul servizio, e finisce quindi per risultare più virtuoso. Per superare il problema è stato introdotto da quest’anno un metodo che tiene conto anche dei servizi effettivam­ente assicurati ai cittadini, ma in mancanza dei «livelli essenziali» questo metodo finisce per aderire ai livelli di spesa attuale.

In questo modo, il gioco dell’oca del federalism­o descritto dall’Upb torna alla casella iniziale, e disegna una geografia del «fabbisogno» plasmata su quella della spesa. Ecco perché Roma, ricca di spese finanziate anche con fondi su misura della Capitale, vede crescere la colonna delle entrate. Ed ecco perché il percorso verso la spesa efficiente è ancora lungo.

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