Al Pil britannico primato di crescita nel G7
Nel 2016 un aumento del 2% - Londra presenta il disegno di legge sull’articolo 50
«Un progetto di legge che garantisca i poteri al premier di notificare, in base all’articolo 50 dei Trattati di Unione europea, l’intenzione del Regno Unito di lasciare l’Ue...». Per volontà di sua maestà la regina, con il permesso dei lords e dei comuni e di tutti coloro che la liturgia britannica mobilita per il varo di una norma storica quale è la separazione anglo-europea.
Ai Comuni è cominciato così l’iter di un lungo addio – il semplice annuncio del passo legislativo – che sarà dibattuto due giorni la prossima settimana e altri tre quella successiva. In parallelo sarà messo a punto il Libro Bianco ovvero il disegno di legge complessivo con cui il governo di Theresa May dovrà illustrare in parlamento, un poco più nel dettaglio di quanto abbia fatto fino ad ora, la sua strategia per il mondo che verrà.
A celebrare il primo passo del Regno verso una gloriosa solitudine ci ha pensato l’istituto di statistica che ha confermato la straordinaria tenuta dell’economia britannica nonostante l’incertezza innescata dalla Brexit. Nell’ultimo trimestre del 2016 il prodotto interno lordo è cresciuto dello 0,6%, appena oltre il consenso degli analisti concordi nel fissare l’asticella a quota 0,5 per cento. I novanta giorni di fine anno che si credeva potessero spingere il Paese sul ciglio della recessione, in realtà, hanno evidenziato una dinamica identica ai novanta giorni precedenti. Due trimestri di fila, quindi, con un segno più dello 0,6% a controbilanciare l’avvio dell’anno che fu più cauto proprio per i timori legati alla Brexit. Londra nel 2016 è cresciuta del 2%, poco meno del 2015 (2,2%) confermandosi la più soli- da economia del G7.
Basterebbe molto meno per inorgoglire i brexiters che leggono in questi numeri la conferma delle loro convinzioni, ovvero che la dinamica di fondo dell’economia britannica è solida abbastanza per superare le secche del distacco dall’Europa. Gli economisti continuano a non crederci sottolineando, oggi più dei mesi scorsi, che l’effetto del recesso si avvertirà sul medio periodo. A sostenere l’economia non c’è sta- to solo l’effetto creato dalla svalutazione del pound sul dollaro ( e anche euro) che dal 23 giugno è stata mediatamente del 17 per cento. La crescita ha nei servizi (più 0,8%) il suo punto forte, la manifattura è rimbalzata rispetto al trimestre precedente, nonostante la produzione industriale nel suo complesso sia rimasta ferma o quasi, come le costruzioni. Un elemento quello sui servizi che indica quanto i consumi interni siano una volta di più il vero driver dell’economia del Regno.
«I dati di oggi – ha commentato il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond – confermano la straordinaria resilienza dell’economia nazionale che non finisce di stupire gli scettici...». Hammond ha letto nei numeri dell’ufficio nazionale di statistica la conferma che, a suo avviso, l’effetto della svalutazione della sterlina non s’è materializzato in un aumento diretto e violento dei prezzi al consumo. Non ancora, almeno.
«Mi pare proprio che la vita vada avanti, nonostante la Brexit” ha constatato Alan Clarke di Scotiabank, riassumendo un pensiero comune a tanti in Gran Bretagna e fuori dai confini del Regno. La pensano diversamente i produttori di auto, industria-chiave della manifattura britannica. Hanno confermato che la dinamica del loro business nel 2016 ha sfidato la legge di gravità, ma vedono la fine del boom. Lo scorso anno sono state prodotte 1,7 milioni di auto, livello record per il Regno negli ultimi trent’anni, ma in parallelo gli investimenti sono caduti da 2,5 miliardi a 1,6. Una contrazione violenta, eccentrica rispetto alla crescita del mercato, che nasce dall’incertezza sulle regole doganali a cui un’industria soggetta a continui trasferimenti di materiali fra Paesi Ue teme di essere assoggettata. «Dazi e tariffe – ha commentato Mike Hawes presidente di SMMT l’associazione che riunisce produttori e commercianti di auto – ci uccideranno con migliaia di tagli». Un problema che Nissan aveva denunciato prima di tutti, spingendo Carlos Ghosn ceo del gruppo a chiedere un colloquio urgente con Theresa May.
Il manager uscì rinfrancato da quell’improvvisato summit, dicendo di aver avuto garanzie del governo tali da convincerlo a fare nuovi investimenti negli impianti di Sunderland. Se Nissan non lascia, ma anzi raddoppia perché tanti timori da parte degli altri costruttori? È probabile che le indefinite garanzie (fiscali, probabilmente) ottenute da Carlos Ghosn non siano applicabili, nei programmi del governo, all’intera linea produttiva della filiera automotive. Londra, lo ricordiamo, esporta in Europa metà delle vetture destinate all’export con la Germania prima piazza seguita dall’Italia.
MAY OGGI A WASHINGTON La premier è il primo leader occidentale a incontrare il nuovo presidente Usa. Commercio e Nato al centro dei colloqui