La Shoah vive grazie al ricordo
Stigmatizzare i fatti di Milano e continuare a raccontare i campi di sterminio
Una piccola pietra può muovere grandi cose. Un sasso di pochi centimetri di lato, ricoperto da una targhetta di ottone, sembrerebbe un oggetto innocuo. Gunter Demnig, l’artista tedesco che ha inventato questo modo per contribuire al ricordo delle vittime del nazismo, le ha chiamate “Stolpersteine”, pietre d’inciampo, ma non per farci davvero inciampare e cadere nessuno. È la smemoratezza che deve scivolarci sopra, rovinare a terra e magari farsi male.
La notizia recentissima di una di queste pietre, posata a Milano e subito coperta, in segno di disprezzo, con uno strato di vernice nera, dimostra, se ce ne fosse bisogno, che l’inciampo funziona, eccome. A qualcuno, purtroppo a parecchi, persino un sasso inglobato nel selciato dà fastidio. Procurarsi la vernice, chinarsi a terra, stendere uno strato simbolico di pece, per oltraggiare questo silenzioso segno, significa dar sfogo una rabbia, minuscola finché si vuole nel gesto, anzi meschina, ma chiara nei suoi intenti.
Il messaggio è eloquente: non bisogna ricordare, e chi lo fa va messo a tacere, soffocato, rimosso. Non sappiamo chi abbia voluto danneggiare la pietra di via Plinio, dedicata a Dante Coen, deportato e ucciso ad Auschwitz. Più esattamente, non ci è nota l’identità del singolo, ma conosciamo fin troppo bene le schiere di nemici della memoria, dei negazionisti, dei riduzionisti, secondo cui la persecuzione, l’annientamento metodico e organizzato di milioni di vite non sarebbe mai avvenuto. «E anche se fosse successo – mi sono sentito dire una volta da uno di questi ‘cancellatori’ – di sicuro gli ebrei se l’erano meritata».
Il ricordo è una straordinaria facoltà dell’uomo. Intendo la memoria coordinata e specifica, delle singole circostanze, la conservazione dei dettagli degli eventi e della loro concatenazione. Ricordare è un processo collettivo, che richiede collaborazione e scambio d’informazioni. La natu- ra pare favorire l’oblio. Il tempo, si dice, aiuta a dimenticare. L’uomo, se vuole, riesce invece a recuperare il passato, e addirittura a comprenderlo meglio, più il tempo passa e gli eventi si allontanano.
Grazie al lavoro di generazioni di storici, ai testimoni che hanno trovato il coraggio per raccontare, e, talvolta, alle indagini della giustizia, il quadro del come e del perché della Shoah è molto più chiaro, dettagliato, impietoso di quello disponibile subito dopo gli eventi. Ne sappiamo ora di più, abbiamo ricostruito gli elenchi dei nomi delle vittime, conosciamo parecchio, anche se non tutto, dei persecutori. Le pietre d’inciampo sono diventate innumerevoli, sulla carta, nelle immagini, nelle parole, nelle coscienze. Persino se i meschini pennellatori d’oblio se ne andassero in giro con milioni di barattoli di tintura bruna, farebbero adesso molta fatica, a imbrattarle tutte.
La memoria è stata moltiplicata, istituzionalizzata, ripetuta. È abbastanza? No, non ancora. La vernice nera, lo sappiamo, costa poco, e in certi posti la si può comprare all’ingrosso. La giustizia non è stata capace di punire nemmeno una minima parte dei colpevoli dello sterminio. Ma gli uomini hanno a disposizione un mezzo più alto, potente, inflessibile della giustizia dei tribunali e delle carceri. È il ricordo, lo strumento più forte e più giusto a nostra portata, e il più umano.