Il Sole 24 Ore

Dazi boomerang per gli Stati Uniti

Nello scambio di beni, Cina, Germania e Giappone hanno surplus più alti del Messico

- di Gianluca Di Donfrances­co

pF orse è solo «una delle idee» in discussion­e, come ha precisato il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, in una delle tante giravolte della neonata amministra­zione statuniten­se. Di sicuro, quella di una tassa alle importazio­ni del 20% è un’idea pericolosa. Per il Messico, che con gli Stati Uniti ha un surplus nello scambio di beni di 67 miliardi di dollari (dato 2015), ma anche per la Cina, il cui avanzo è cinque volte tanto (367,4 miliardi), come per l’Unione Europea (156,9), la Germania (75) o l’Italia, che nel 2015 ha chiuso con un surplus di 28 miliardi.

E alla fine è un’idea pericolosa per gli stessi Stati Uniti. Da un lato perché farebbe aumentare i costi sostenuti da imprese e consumator­i americani per acquistare le merci importate dall’estero, come pure i beni prodotti negli Usa con componenti fornite da aziende messicane, cinesi, vietnamite ed europee. Il dazio sarebbe in parte assorbito dalle aziende, sacrifican­do i profitti, in parte sarebbe scaricato sugli acquirenti finali, andando così ad alimentare l’inflazione, cosa che potrebbe spingere la Federal Reserve ad accentuare la stretta sulla politica monetaria proprio mentre la Casa Bianca progetta misure di bilancio espansive.

Dall’altro lato, il neo- mercantili­smo di Trump potrebbe innescare le ritorsioni uguali e contrarie degli ex-partner commercial­i, oltre che una se- rie di ricorsi davanti all’Organizzaz­ione mondiale del commercio, che però avrebbero tempi lunghi. Ne risultereb­bero frammentat­e le manufactur­ing supply chains globali, con distruzion­e di punti di crescita e posti di lavoro per le economie di tutto il mondo. Un’eventuale escalation che portasse a una guerra commercial­e globale lascerebbe sul terreno moltissimi sconfitti e ben pochi vincitori (nel 1930, con lo Smoot-Hawley Tariff Act, gli Stati Uniti alzarono i dazi per risollevar­si dalla crisi economica, cer- cando di scaricarne il peso sul resto del mondo, ma finirono solo per aggravarla). Secondo Martyn Hole, investment specialist di Capital Group, «un contesto di protezioni­smo e guerre valutarie non è nell’interesse di nessuno. Alla fine, in un paio di anni, danneggere­bbe l’economia Usa e renderebbe la rielezione di Trump al secondo mandato molto difficile».

Il dipartimen­to del Commercio statuniten­se stima che i quasi 2.300 miliardi di dollari di esportazio­ni «made in Usa» diano lavoro a 11,7 milioni di americani. Oltre 300mila imprese vendono beni e servizi sui mercati internazio­nali e per il 98% si tratta di aziende con meno di 500 addetti. Il 26% delle quali nel settore manifattur­iero e il 24% nell’agricoltur­a. È la galassia dei blue collar e dei redneck che ha creduto nelle promesse di Trump e che pagherebbe per prima, negli Stati Uniti, il boomerang del protezioni­smo. Secondo il Peterson Institute for Internatio­nal Economics, una guerra commercial­e “solo” con Messico e Cina metterebbe a repentagli­o quasi cinque milioni di posti di lavoro negli Usa.

Durante la campagna elettorale, Trump aveva annunciato dazi del 35% contro il Messico e addirittur­a del 45% contro la Cina, accusata di pratiche commercial­i scorrette e di manipolare lo yuan. Secondo Kevin Lai, capo economista per l’Asia di Daiwa Capital Markets, un dazio di questa entità potrebbe ridurre dell’87% le esportazio­ni cinesi negli Stati Uniti e nel tempo distrugger­e il 4,8% del Pil cinese, ma basterebbe un dazio del 15% a cancellare l’1,8% del Pil di Pechino, che potrebbe contrattac­care in molti modi: rimpiazzar­e i Boeing con gli Airbus europei, bloccare le importazio­ni di mais e soia statuniten­se, penalizzar­e le vendite di iPhone e auto americane sul mercato interno. Pechino ha poi in cassaforte oltre mille miliardi di dollari di titoli di Stato americani, abbastanza da destabiliz­zare la valuta statuniten­se.

IN SURPLUS CON GLI STATI UNITI

In miliardi di dollar i

RITORSIONI Una guerra commercial­e «solo» con Cina e Messico metterebbe a rischio quasi 5 milioni di posti di lavoro americani

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy