Quando l’etica interpella l’impresa
All’Europa servono modelli di sviluppo che contribuiscano a ridurre le disuguaglianze
Il clima per niente idilliaco nel quale viviamo rende difficile, ma certamente utile, scrivere o parlare di impresa. Ed è più difficile farlo per chi, come me, non è … dell’ambiente. Però, alcune letture e l’incontro con alcuni imprenditori coraggiosi ha stimolato in me una serie di considerazioni.
Edesidero condividere con voi alcune di queste riflessioni. Comincio a farlo partendo dall’affermazione di un altro “non addetto” ai lavori, Benedetto XVI. «L’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento - ha scritto papa Ratzinger -; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona» ( Caritas in veritate, n. 45).
Viviamo in una comunità nella quale – ci dicono le statistiche – mentre non mancano i progressi, la piaga della diseguaglianza finisce per relegare masse ingentissime in una condizione di povertà estrema, a fronte di pochi fortunati che si sono accaparrati la maggior parte della ricchezza del mondo. Secondo Forbes oggi i 62 individui più ricchi al mondo posseggono la stessa ricchezza di 3 miliardi e mezzo di poveri; e la tendenza va verso l’accentuarsi di questa enorme disuguaglianza. È la stessa diseguaglianza che si trova nelle nostre città, nel nostro Paese, nella nostra Europa, e che crea ancora sacche enormi di povertà, di sofferenza, di emarginazione.
L’etica che può far bene all’impresa è quella che spinge a sentirsi interpellati da questo stato di cose e suggerisce – praticandoli – modelli di sviluppo che contribuiscano concretamente a ridurre le differenze e le distanze. È, insomma, l’etica che non sopporta un’idea di socialità nella quale si delega a pochi il compito di occuparsi del bene di tutti, mentre gli altri possono dedicarsi ai loro affari personali. Al contrario, recependo le stesse indicazioni che Giovanni Paolo II offriva nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis, la solidarietà è da intendere come «la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (n. 38).
Queste considerazioni possono ap- plicarsi pienamente al mondo dell’impresa, cioè a quel settore dell’economia che si preoccupa di produrre i beni e i servizi necessari al benessere collettivo. In questa direzione mi pare vada la legge 125/2014. Essa riconosce a pieno titolo gli imprenditori e gli attori del settore privato come soggetti della cooperazione allo sviluppo, chiamati a costruire le condizioni per un mondo in grado di promuovere la dignità di tutti. E questo viene chiesto loro non in quanto “agenzie di aiuto”, ma proprio in quanto im- prenditori con un compito e con delle responsabilità precise. Le stesse suggerite dal discorso tenuto da papa Francesco in occasione della Conferenza internazionale delle associazioni di imprenditori cattolici (Uniapac).
Riprendendo un’indicazione dal chiaro sapore pastorale, ma non per questo scontata e banale, il Papa ricordava all’Uniapac che il denaro, la disposizione verso il profitto e l’attenzione alla crescita economica non sono di per sé cose “sporche” o disdicevoli. Il denaro, del resto, non rappresenta mai una dimensione “neutra”, ma «acquista valore a seconda delle finalità e delle circostanze in cui si usa». Sicché è davvero possibile dire che «quando si afferma la neutralità del denaro, si sta cadendo in suo potere». Il guadagno come unico obiettivo e come traguardo porta inevitabilmente alla strumentalizzazione di tutte le tappe intermedie che a esso vorrebbero condurre: l’uomo, i suoi valori, i suoi spazi e i suoi tempi, i suoi diritti, i suoi sacrifici e le sue speranze vengono schiacciati, soffocati, violentati dalla logica di un bieco e cinico interesse.
Le parole del Papa sono in questo senso fulminanti e, diciamolo pure, politicamente scorrette: il denaro – afferma Francesco – «deve servire, invece di governare»; e le imprese «non devono esistere per guadagnare denaro, anche se il denaro serve per misurare il loro funzionamento. Le imprese esistono per servire». Ma questo può accadere solo quando ci si spende per superare una certa logica “mercantile” che si limita a trasformare la forza lavoro in accumulo di guadagno, mettendo in gioco variabili inedite che esaltano la centralità della persona, il suo bene più grande, la sua verità più profonda, il suo destino ultimo. La ricchezza di queste dimensioni è indeducibile dalla meccanica lineare che lega prezzo a prestazione. L’impresa che serve fa ben più che “produrre servizi”: promuove l’uomo, tutto l’uomo, valorizzandolo a partire dal suo impegno per fare del mondo una casa abitabile per se stesso e per le generazioni che verranno in un’ottica di autentica “ecologia integrale” (cf., Enciclica Laudato si’).
Si tratta di un investimento, certamente; di un rischio, in qualche caso. Soprattutto quando si tratta di scegliere tra un aumento dei guadagni e la tutela di un valore non negoziabile per la persona. Del resto, sono sempre da guardare con sospetto tutti quegli atteggiamenti che vedono nell’introduzione di comportamenti etici nell’organizzazione d’impresa una via garantita – o peggio ancora, la via maestra – verso soglie di profitto sempre maggiori. In qualche caso, occorre che le imprese tengano in considerazione anche la possibilità di perdite nell’immediato. Non lo dico a cuor leggero, ma è sotto gli occhi di tutti, ed è stato ampiamente osservato anche dalla letteratura scienti- fica in tema, che «le imprese che pongono in essere comportamenti etici sostengono spesso degli aggravi di costi che incidono sul prodotto finale e possono essere penalizzate da utenti non interessati ad aspetti di responsabilità sociale. Affermare allora che l’etica “paga” vuol significare che ad essa si collegano sicuramente dei vantaggi per l’impresa e per l’imprenditore, ma non vuol dire che questi vantaggi risulteranno superiori in termini economici ai costi derivanti dalla sua applicazione» (R. Passeri).
Nonostante ciò, ha ragione papa Francesco quando afferma nel suo richiamato Discorso all’Uniapac che «pur ammettendo la possibilità di creare meccanismi imprenditoriali che siano accessibili a tutti e funzionino a beneficio di tutti, [...] sarà sempre necessaria una generosa e abbondante gratuità» nel fare impresa. E questo perché «lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno [...] di fare spazio al principio di gratuità come espressione della fraternità» (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 34). Non per mera filantropia, ma per riaffermare una volta per tutte ciò che fonda l’economia stessa: il “principio uomo”, lo stesso per il quale sta o cade ogni possibilità di progresso sociale ed economico.
IL PERICOLO Quando il guadagno diventa l’unico obiettivo, l’uomo, i suoi valori, i suoi spazi, i suoi tempi, i suoi diritti, i suoi sacrifici sono schiacciati