Differenziale in rialzo ma con tassi da «Qe»
«Q uest’anno uno spread a 170 andrebbe benissimo». L’auspicio in questione sarebbe di Maria Cannata, direttore del debito pubblico del Tesoro, ma più della pur autorevolissima fonte è soprattutto la data in cui queste parole sono state pronunciate a far riflettere perché era sì fine gennaio, ma dell’anno 2014: allora il rendimento del BTp decennale era al 3,86%, mentre il differenziale rispetto alla Germania viaggiava a quota 222.
A tre anni esatti di distanza, con in mezzo un piano di riacquisti lanciato dalla Bce e con lo spread tornato prepotentemente alla ribalta proprio in area 170-180 punti base, c’è chi probabilmente sottoscriverebbe di nuovo quell’augurio. Solo che lo farebbe con spirito molto differente, perché oggi le dinamiche sono opposte: il decennale italiano è al 2,23% e le prospettive, per non dire i rischi, sono quasi tutti al rialzo.
Si potrebbe constatare, non senza amarezza, che le crescenti incertezze sul quadro politico italiano (inclusa la sentenza della Consulta che apre le porte a elezioni anticipate) hanno fatto evaporare una buona fetta dei guadagni ottenuti grazie a quel quantitative easing targato Mario Draghi che aveva portato il differenziale Italia-Germania vicino al livello di 100 punti che la stessa Cannata definiva «non distorsivo» in quella dichiarazione di 3 anni fa.
Anche per questo motivo lo spread torna a far parlare di sé e a spaventare anche chi in questo momento al Governo sta valutando se andare allo scontro frontale con la Commissione europea sulla questione del deficit eccessivo. Per dirla con le parole del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, l’eventuale procedura di infrazione rappresenterebbe infatti «un problema in termini di reputazione» che si rifletterebbe sui mercati finanziari, traducendosi a sua volta in rendimenti più elevati e quindi in un costo maggiore a servizio del debito italiano.
Lo spread racconta però soltanto una faccia della realtà perché quello che conta, si sa, sono i tassi del debito italiano e questi sono appunto decisamente più contenuti rispetto a qualche anno fa: lo scorso dicembre il tasso medio all’emissione dei titoli del Tesoro è sceso al minimo storico dello 0,55%. Tanto per fare un paragone era al 2,08% quando Cannata pronunciava quelle parole e al 3,61% nel 2011, l’anno del grande spavento per i BTp. I margini per portare a casa un altro anno di emissioni a costo contenuto e inferiore alla media storica restano quindi ampi, anche quando si tiene conto delle inevitabili tensioni politiche a cui si andrà incontro.
Il problema è semmai un altro: in quei rendimenti del decennale più che raddoppiati da metà agosto c’è sì molto demerito da parte nostra (e lo dimostra lo spread nei confronti della Spagna, salito da 12 a 65 punti base), ma anche un effetto globale legato all’accelerazione della crescita e dell’inflazione, le cui aspettative sono alla base della risalita dei tassi del Bund dal minimo storico di -0,19% fino allo 0,46% raggiunto ieri. Quest’ultimo fattore è destinato verosimilmente a proseguire, anche perché i dati che saranno diffusi lunedì potrebbero regalare un indice dei prezzi tedeschi in accelerazione al 2% in gennaio, o costringeranno il Tesoro a remare comunque controcorrente.