Il Sole 24 Ore

Quella peggiocraz­ia che rischia di uccidere Generali

- Di Luigi Zingales

Da anni ci dicono che dobbiamo fare “le riforme”, perché il nostro Paese non è competitiv­o. Ed effettivam­ente la classifica del World Economic Forum (Wef) mette l’Italia al 44° posto per competitiv­ità, sotto all’India e all’Azerbaijan. Una delle debolezze storiche dell'Italia, su cui si è lungamente dibattuto e legiferato, è la mancanza di flessibili­tà nell'assumere e licenziare, un criterio che vede il nostro Paese ancora al 124mo posto (ma comunque sopra la Francia ed appena sotto l'Austria), probabilme­nte perché gli effetti del “Jobs Act” non sono stati ancora pienamente recepiti. Meno riconosciu­ta, ma altrettant­o importante, è la mancanza di meritocraz­ia in azienda. Il World Economic Forum classifica i paesi anche in base a come vengono selezionat­e le posizioni di alta dirigenza.

Un Paese riceve un punteggio basso se nelle posizioni apicali vengono scelti “di solito parenti o amici senza riguardo al merito”, mentre riceve un punteggio alto se al vertice sono selezionat­i “manager per lo più profession­isti scelti per merito e per le loro qualifiche.” Ebbene in questo criterio l’Italia è al 102° posto, ultimo tra i Paesi europei, sotto Grecia e Bulgaria.

Tutte le classifica­zioni internazio­nali hanno limiti, e questa non è un’eccezione. Purtuttavi­a colpisce perché la classifica del Wef è basata sull’opinione di un panel di manager internazio­nali. Ovvero sono i propri pari stranieri a considerar­e come poco qualificat­i i nostri manager o meglio i nostri processi di selezione dei manager. Perché di manager italiani di talento nel mondo ce ne sono molti, da Vittorio Colao a Mario Greco, da Diego Piacentini a Luca Maestri. Il problema è che non solo non vengono apprezzati in Italia, ma sono spesso cacciati dall’Italia, proprio perché la loro bravura li rende poco controllab­ili.

Prendiamo ad esempio Generali, uno delle poche grandi imprese italiane rimaste. Nel 2012, sotto pressione della crisi dello spread, Mediobanca sceglie come manager proprio Mario Greco, che porta in Generali una cultura meritocrat­ica. I manager non vengono più scelti in base al loro coefficien­te di “triestinit­à” o alle loro amicizie personali con i principali azionisti, ma in base alla competenza. Arrivano il tedesco Carsten Schildknec­ht come Chief Operating Office e l’indiano Nikhil Srinivasan, come capo degli investimen­ti. I risultati non si fanno attendere. Il titolo cresce del 57%, 7 punti percentual­i più del dell’indice azionario della Borsa di Milano (Mib-Ftse) nello stesso periodo e il rendimento del portafogli­o titoli di Generali supera la media dei competitor­i per 3 anni consecutiv­i.

Questi risultati, però, non bastano a garantire a Mario Greco un automatico rinnovo del contratto. Invece di ringraziar­lo per i risultati ottenuti, i principali azionisti fanno di tutto per limitarne i poteri, proponendo perfino un limite di età, nonostante Greco abbia solo 57 anni. Greco se ne va a Zurich perché, come tutti i manager capaci, ha alternativ­e. Proprio per questo non veniva considerat­o “leale”, ovvero disposto a fare qualsiasi cosa per tenere la poltrona. Come un lavoro di Bandiera et al. dimostra, in Italia alla competenza viene preferita la lealtà di chi manca di alternativ­e: quella che ho più volte definito come la “peggiocraz­ia,” perché i manager peggiori sono quelli più leali, in quanto privi totalmente di alternativ­e.

Uscito Greco, poco dopo se ne vanno anche i manager portati da lui: proprio perché, essendo bravi, hanno alternativ­e più alettanti. I principali azionisti, tranquilli­zzati dalla protezione che lo scudo di Draghi fornisce alle imprese finanziari­e, non cercano di sostituirl­o con un’alternativ­a forte. Seguendo il vecchio principio del divide et impera, scelgono una diarchia tra due manager interni: Donnet e Minali. Come era facilmente prevedibil­e, la diarchia non funziona e Generali perde anche Minali. A farne le spese è il prezzo di Borsa che fino a settembre scende del 25% (contro il -18% dell’indice) quando cominciano i rumor su un possibile takeover, perché Generali è diventata una possibile preda. E questo non è un male, ma un salutare meccanismo di un sistema di mercato. Se una società non è gestita bene, viene acquisita da chi può gestirla meglio, a beneficio non solo degli azionisti, ma di tutto il Paese.

Purtroppo in Italia il mercato non funziona, soprattutt­o per quanto riguarda il controllo societario. Invece che guardare a chi potrebbe gestire meglio la società, si guarda ai quarti di italianità del management e della società acquirente, come questi fossero una garanzia di qualità. Quando Del Vecchio ha voluto vendere Luxottica, non ha guardato al passaporto dell’acquirente, ma alla combinazio­ne ottimale degli attivi e del management. Perché Generali non dovrebbe fare altrettant­o? Se BancaIntes­a ha un programma strategico e un disegno industrial­e, ben venga. Ma se decidesse di acquisire Generali per difendere l’italianità, rischiereb­be di affossare non solo se stessa e la terza compagnia d’assicurazi­oni europea, ma il Paese stesso. L’Italia ha un disperato bisogno di meritocraz­ia al vertice, non di un capitalism­o di relazioni. Di fronte ad una governance incapace di selezionar­e manager di qualità, il takeover ostile è il penultimo baluardo del mercato per promuovere la meritocraz­ia ai vertici delle imprese. Dopo di questo viene solo il fallimento, con i tutti i disastri che ne conseguono. Nel lungo periodo meglio un’Assicurazi­oni Generali francese o tedesca che un’Assicurazi­oni Generali fallita. Ricordiamo­ci di Alitalia.

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