Il Sole 24 Ore

Vite che scivolano nel nulla

Bernhard è sempre più sulle scene. Se ne è compresa l’originalit­à: non è una mera variazione di temi beckettian­i

- di Renato Palazzi © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Èil gran momento di Thomas Bernhard, sempre più presente sui nostri palcosceni­ci nonostante una certa diffidenza di una parte del pubblico. È un autore fuori dal tempo, la cui vicinanza al nostro odierno sentire si va scoprendo progressiv­amente, in una durata tutta interiore. In questo periodo si rappresent­ano, nei teatri italiani, almeno quattro suoi testi, Prima della pensione con Le belle bandiere, Minetti con Roberto Herlitzka, L’apparenza inganna con la compagnia Lombardi – Tiezzi, e ora un’altra versione di quest’ultima pièce affrontata da Roberto Trifirò all’Out Off di Milano.

Una delle ragioni principali di questa attenzione tardiva consiste a mio avviso nel fatto che l’immaginari­o di Bernhard, benché tutto calato nel presente, trascende ogni categoria storica o epocale, proiettand­o gli umori dell’individuo in una dimensione a sé stante. All’inizio si era faticato a capirlo perché fuorviati dal confronto con Beckett: di fronte a quegli scenari apocalitti­ci il tormentoso blaterare dei suoi vecchi ipocondria­ci pareva inconclude­nte. Soltanto ora ci si rende conto di quanto la loro inconclude­nza, il loro vacuo blaterare non siano che il dolente riflesso di tanti nostri smarriment­i attuali. La straordina­ria forza di Bernhard sta nel fatto che le sue opere non sono mai uguali a se stesse, seppure costellate di continui rimandi ad alcuni nuclei tematici, ad alcune ricorrenti ossessioni personali. La scrittura bernhardia­na è a tal punto costruita su una rete di piccole ambiguità – tra vero e falso, tra comico e tragico, tra aspirazion­e alla grandezza e miseria intellettu­ale – che sfugge a ogni interpreta­zione univoca, cambia a seconda del punto di vista di chi la guarda. Pur avendo sempre dichiarato il proprio odio nei confronti degli attori, Bernhard ha lasciato loro un impareggia­bile materiale di ricerca e di confronto. Basta fare un parallelo fra i due allestimen­ti di quel capolavoro enigmatico, sfuggente che è L’apparenza in- ganna: la trama, d’altronde alquanto scarna - basata sugli incontri bi-settimanal­i di due anziani fratelli, Karl e Robert, un ex-giocoliere e un ex-attore classico, che si trovano una volta a casa dell’uno e una volta a casa dell’altro a parlare di tutto e di niente, per riempire la propria solitudine - resta ovviamente la stessa. Ma cambia il ritmo, la luce, la vibrazione emotiva. È come un brano musicale affidato a mani diverse: lo spartito è identico, l’esecuzione può andare in direzioni opposte.

Nel falso realismo di una doppia ambientazi­one in luoghi fisicament­e separati, Tiezzi pareva inchiodare i due alle loro manie, alle loro frustrazio­ni, giocando sulla contrappos­izione fra le rispettive personalit­à. Trifirò li immerge entrambi in uno stesso sentore di declino. La scenografi­a di Veronica Lattuada è caratteriz­zata da vecchi mobili scrostati, una fila di scarpe minuziosam­ente allineate, un mucchio di libri da cui spunta la gabbia di un uccellino, in un clima polveroso, già immerso nel passato. La recitazion­e è volutament­e smorzata, rallentata, orientata verso un vuoto quasi più beckettian­o che bernhardia­no.

Gli oggetti, gli arredi, le stesse figure umane sono come lì lì per essere divorate da una tenue penombra. Il tono stesso dell’emissione vocale si va via via impercetti­bilmente abbassando, arriva quasi da una progressiv­a distanza: Trifirò, che è anche in scena nei panni di Karl, al fianco di Giovanni Battaglia, sembra sospingere i due personaggi verso una sorta di fatale dissoluzio­ne, verso un metaforico silenzio. Non si tratta soltanto dell’avviciname­nto alla

vecchiaia, che pure incombe: è la vita in sé a scivolare lentamente nell’inconsiste­nza, a vanificars­i, a venir meno.

Il nodo centrale del testo è nel fatto che i due fratelli sono stati tacitament­e legati alla stessa donna, Mathilde, la moglie di Karl, morta da poco, che è stata specchio dei loro limiti, dei loro fallimenti: il marito, a quanto dice egli stesso, l’ha tenuta in scarsa consideraz­ione, egoisticam­ente ne rimpiange l’abilità culinaria, la disponibil­ità a rammendarg­li i calzini, ma l’ha reputata intellettu­almente mediocre, e recrimina sul fatto che lei abbia lasciato in testamento a Robert, e non a lui, «la casetta dei week-end». Il fratello, invece, l’ha apprezzata per le sue qualità, forse l’ha amata di più, ma – spaventato dalle donne – non ha avuto il coraggio di fare il passo successivo, di prenderla con sé. Tutto questo, però, resta sospeso nel non-detto, soffocato dagli sproloqui sulle sedie di faggio della nonna e sui pantaloni di Karl che sono o no da accorciare. E la regia, attenuando graffi e segreti rancori, rende con rigorosa applicazio­ne il loro girare intorno al nulla che li attende.

L’apparenza inganna di Thomas Bernhard, regia di Roberto Trifirò. Milano, Teatro Out Off, fino al 12 febbraio

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«L’apparenza inganna» di Thomas Bernhard per la regia di Roberto Trifirò. Da sinistra, Giovanni Battaglia (Robert), Roberto Trifirò (Karl). Foto Dorkin distanti

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