Un blocco che ha colpito personale ed enti virtuosi
Alla Regione Lazio hanno deciso di pagare la produttività ai dipendenti «solo dopo il processo di valutazione» trimestrale e «in base al livello di conseguimento degli obiettivi predefiniti negli strumenti di programmazione!!!». I tre punti esclamativi per sottolineare la decisione «che grida vendetta» sono scritti in una newsletter del sindacato di base, e mostrano bene come nella nostra pubblica amministrazione anche l’ovvio possa accendere uno stupore sincero. La logica, prima delle regole, imporrebbe di pagare la produttività dopo averla misurata, e non prima, ma se per anni si è fatto il contrario la meraviglia è inevitabile.
Intendiamoci, il problema non è il sindacato di base, che non è rappresentativa tutta la pubblica amministrazione, e nemmeno la Regione Lazio, che non è l’eccezione alla regola. In tanti uffici pubblici, centrali e locali, progressioni e indennità accessorie come la produttività sono stati usati per quel che non sono, come ammortizzatori sociali o facilitatori di consenso. Rimetterle in discussione, magari sotto la spinta di un’ispezione della Ragioneria generale o di una contestazione della Corte dei conti, comporta scelte difficili anche perché incidono spesso su buste paga non certo stellari.
Lo scambio fra «pago poco» e «pretendo meno», però, non funziona più, perché consuma risorse sproporzionate rispetto ai risultati che offre in termini di servizi. Quando è arrivata la crisi di finanza pubblica, la risposta si è limitata ai blocchi lineari di contratti e turnover, ma non è complicato capire che a pagare il prezzo maggiore sono stati gli stipendi più bassi, in particolare quelli del personale più giovane e motivato, e gli enti con gli organici più leggeri. La riforma del pubblico impiego, viste le tante promesse che l’hanno accompagnata, avrebbe il compito di ribaltare la situazione. Sempre che la politica abbia il coraggio e il tempo per farlo.