Il presidente-arbitro e la moral suasion
Il presidente Mattarella il 3 febbraio chiuderà il secondo anno del suo settennato. Chissà se quando usò nel discorso di insediamento la nota immagine dell’«arbitro» per segnalare una delle cifre del suo mandato, forse la principale, si aspettava una partita così complicata da dirigere. Certo il presidente è rimasto fedele a quella immagine e l’ha ribadita il 29 novembre dell’anno scorso ricevendo degli studenti al Quirinale quando ha notato che «quando il gioco si svolge regolarmente senza falli e senza irregolarità l’arbitro neppure si nota … interviene quando le cose non vanno».
Gli sarebbe piaciuto essere notato poco, perché, come avviene appunto per gli arbitri, accade che i giocatori si attengano alle regole per la sua sola presenza. Ovviamente non è così neppure nel calcio, figuriamoci nella vita politica. L’arbitro mette in gioco il suo ruolo a garanzia del pubblico e nella vita istituzionale il presidente è il «difensore della città», la figura in cui i cittadini devono riconoscere una fonte delle loro tutele.
Mattarella questo ha voluto e continua a voler essere: quando la situazione era relativamente più calma e sembrava che il sistema potesse trovare una sua stabilizzazione per quanto complicata, ma anche oggi che quell’orizzonte sembra quantomeno compromesso. Si sa che il presidente non ama la retorica tagliente e che la sua “moral suasion” cerca sempre le vie che possano essere meno invasive. Come ama ripetere a volte, il lavoro dell’inquilino del Colle si svolge più dietro le quinte che sul palcoscenico. Del resto ritiene di essere molto più incisivo così che non se ricercasse una qualche forma di «appello al popolo».
Nei due anni trascorsi è stato attento a che non si sospettasse di una qualche sua ambizione a rivestire ruoli di regista più o meno occulto delle evoluzioni e poi delle crisi del nostro sistema. È perfino riuscito a riscuotere il riconoscimento di chi non aveva esattamente apprezzato la scelta della sua candidatura (Berlusconi) e, tutto sommato, gli attacchi che ogni tanto gli arrivano da Grillo e da Salvini sono, nel contesto di quel che fanno i due personaggi, relativamente moderati.
Il fatto è che la gente apprezza un presidente che si sforza di trasmettere un messaggio di fiducia nel momento in cui le tensioni politiche, ma non solo quelle, sono molto alte. Del resto Mattarella sa parlare alla gente più di quanto molti non siano disposti a concedere. Già il suo messaggio di fine anno il 31 dicembre scorso mise in luce questa capacità: un discorso breve (meno di 17 minuti) per non essere invasivo nella ricorrenza, ma chiaramente indirizzato ai suoi ascoltatori più che alla classe politica. Non che mancasse un messaggio anche per questa, ma era lo stesso che mandava a tutti i cittadini: la politica non semini odio e non ci si illuda che il voto sia una bacchetta magica per stabilire chi vince e fa l’asso pigliatutto. Non è così che si risolvono i problemi.
L’inquilino del Colle non si esprimerebbe mai in questi ter- mini, perché ritiene che il vertice delle istituzioni debba rispettare delle precise regole per il proprio linguaggio: il «parla come mangi» va bene per eccitare un po’ di populismo, ma non serve a costruire rispetto e fiducia verso le istituzioni che devono realmente rappresentare le positività della politica piuttosto che gli spiriti animali che animano le sue zuffe.
Forse si è fatta poca attenzione alla preoccupazione costante che Mattarella ha nel valutare sempre cosa viene «dopo». Nella diatriba infuocata che per mesi ha tenuto inchiodato il paese sulla questione del referendum costituzionale, il presidente si è rigorosamente astenuto dal suggerire, neppure in forma alata, una scelta, ma ha sempre richiamato alla necessità di prepararsi in maniera seria a gestire il dopo voto qualunque ne fosse l’esito. Che sia stato ascoltato, purtroppo non si può dire. Al-
I TIMORI PER IL «DOPO» Il capo dello Stato lascia filtrare la preoccupazione per uno scontro che vuole elezioni subito senza pensare ai possibili esiti
trettanto quando Renzi si è presentato il 5 dicembre con le dimissioni in quanto sconfitto nelle urne, Mattarella ha chiesto che queste avessero effetto solo dopo aver messo in salvo la legge di bilancio. Così oggi lascia filtrare la sua preoccupazione per uno scontro politico che vuole elezioni in fretta dove nessuno sembra preoccuparsi di cosa succederà dopo: già nel suo discorso all’assemblea dell’Anci il 16 ottobre scorso aveva ammonito che qualsiasi ricorso al voto deve preoccuparsi di cosa può avvenire dopo.
Si sbaglierebbe però se non si cogliesse che in tutta questa stagione di incerte transizioni politiche (che è difficilissimo capire dove andranno a sfociare) Mattarella non si è mai dimenticato della gente. Non è solo questione di passaggi che non mancano mai nei suoi discorsi per rammentare le difficoltà del paese, per ricordare problemi anche apparentemente lontani dalle preoccupazioni del suo ruolo: rammentiamo per esempio quando il 29 ottobre si pronunciò contro l’antiscientismo che montava sulla questione dei vaccini, tema il cui peso sociale non può essere sottovalutato. C’è una capacità di vicinanza alle persone che era stata sottovalutata nelle prime impressioni suscitate dopo la sua nomina, ma che è venuta poi alla luce con la sua presenza sui luoghi delle tragedie per il terremoto e il maltempo che ha colpito l’Italia centrale: presenza umana che la gente ha saputo apprezzare anche se priva di gesti eclatanti e di presenzialismi sotto i riflettori, o forse tanto più per questo.
In tempi difficili gira una certa nostalgia per l’uomo forte, o almeno così si vuol fare credere, ma si apprezza di più chi testimonia che il vertice dia a tutti l’esempio di fare senza clamore il proprio dovere restando al proprio posto e assumendone gli oneri.