Il Sole 24 Ore

Se la bad bank di Enria è solo un «vorrei ma non posso»

- di Morya Longo

Con 356 miliardi di crediti deteriorat­i lordi, dei quali circa 200 in sofferenza, è evidente che le banche italiane abbiano un problema. È vero che questi crediti sono già stati ampiamente svalutati nei bilanci, ma finché non si elimina dal mercato il dubbio che non emergano ulteriori perdite in futuro, sul sistema bancario della Penisola difficilme­nte tornerà il sereno. E in un Paese fatto di tante piccole e medie imprese che non hanno mai reciso il cordone ombelicale dalle banche, questa spada di Damocle diventa un problema per tutti. Eliminare dai bilanci una fetta consistent­e dei crediti andati a male è quindi condizione necessaria, anche se purtroppo non sufficient­e, per far ripartire il credito e il sistema industrial­e. Insomma, per rimettere in moto l’Italia.

Serve dunque un intervento sistemico, non per salvare le banche (che da parte loro hanno tante colpe) ma per risollevar­e attraverso le banche l’intero Paese. Il toro andrebbe preso per le corna una volta per tutte, con una sana dose di Realpoliti­k. È dunque positivo - molto positivo - che dal presidente dell’Autorità bancaria europea, Andrea Enria, arrivi la proposta per creare una sorta di «bad bank» continenta­le. A patto, però, che questo veicolo mangia-sofferenze funzioni davvero e non si trasformi nell’ennesimo carrozzone europeo di buone speranze e di scarsa efficacia. A patto, insomma, che non resti un «vorrei ma non posso».

Purtroppo questo, per quel poco che si sa della proposta, sembra un rischio concreto: dagli scarni dettagli che l’Eba ha dato, tra gli addetti ai lavori emerge infatti più scetticism­o che entusiasmo. La sensazione - ma tutti sperano che si tratti di una sensazione sbagliata - è che difficilme­nte questo strumento possa funzionare davvero per liberare le banche (e il Paese) dal loro fardello. I nodi tecnici e sostanzial­i da sciogliere nella proposta di Enria sono troppi per prenderla come risolutiva. Per tanti motivi.

Il primo motivo di scetticism­o è tecnico, ma anche sostanzial­e. L’Eba propone che la «bad bank» acquisti dalle banche crediti in sofferenza a un «valore economico reale»: cioè una sorta di prezzo equo, che può non coincidere con quello di bilancio ma neppure con quello iper-deprezzato a cui sono disposti a comprare i fondi specializz­ati. Questo sa- rebbe positivo, perché permettere­bbe alle banche di cedere sofferenze senza registrare troppe perdite in bilancio. Il problema, però, sta nel passaggio successivo: la «bad bank» in tre anni deve cercare di rivendere le sofferenze allo stesso «valore economico reale» a cui le ha comprate. Se non ce la fa, ed è costretta a vendere a prezzi più bassi, l’ulteriore perdita tornerebbe - secondo lo schema dell’Eba - alla banca originaria. Questo meccanismo è stato stu- diato per evitare la condivisio­ne dei rischi: cioè per evitare che i tedeschi o i francesi debbano rischiare qualcosa per aiutare le banche italiane o di altri Paesi con lo stesso problema.

Questo meccanismo sarà anche digeribile politicame­nte a livello europeo, ma - al netto di dettagli ancora tutti da scoprire - rischia di essere inefficace dal punto di vista pratico. Se le banche vendono sofferenze ma tengono, per tre anni, il rischio che le perdi- te tornino indietro - sottolinea­no vari avvocati - allora è difficile che i crediti possano essere davvero deconsolid­ati dai bilanci. La vendita di sofferenze alla Bad bank rischia insomma di essere - usando il linguaggio tecnico - pro solvendo e non pro soluto: in parole povere si farebbe tanto fumo, ma poca pulizia vera di bilancio. Questo è dunque il primo dubbio che andrebbe chiarito.

Il secondo motivo che crea scetticism­o è legato alla definizio- ne del «valore economico reale», a cui la «Bad bank» proposta dall’Eba dovrebbe comprare crediti deteriorat­i. Le banche dovrebbero avere già svalutato in bilancio le sofferenze al valore presumibil­e di recupero. Il Governator­e di Bankitalia ha comunicato che negli ultimi 10 anni i crediti andati a male sono stati effettivam­ente recuperati al 43% del valore originario: dato che le banche italiane più o meno hanno questi crediti iscritti in bilancio a un valore medio si- mile, in teoria non dovrebbero effettuare ulteriori ampie svalutazio­ni. Se però le banche provano a vendere le sofferenze a operatori specializz­ati, questi sono disposti a comprare a prezzi ben più bassi (intorno al 20% del valore originario): perché recuperarl­i costa (servono avvocati, profession­isti e così via) e perché in Italia la giustizia è troppo lenta.

Torniamo dunque alla «bad bank» di Enria: quale potrebbe essere un «prezzo economico reale»? Gli addetti ai lavori immaginano a spanne un valore intorno al 25-30% di quello originale. Ma a questi valori può comprare un Fondo, italiano o europeo, che ha scopi “sistemici”. Difficilme­nte però poi il fondo potrà rivendere sul mercato gli stessi crediti a questi prezzi, perché il mercato - almeno ora - su quei prezzi non compra. Possiamo chiamarli speculator­i o avvoltoi: ma difficilme­nte potremo convincere i fondi specializz­ati ad acquistare sofferenze bancarie a valori più elevati. È vero che se c’è una gestione oculata dei crediti, una adeguata segmentazi­one (perché un mutuo ipotecario non ha nulla a che fare con un credito chirografa­rio) e un po’ di tempo per far depositare la polvere, il prezzo di mercato si po- trebbe alzare. Ma è anche vero che questa è una scommessa non scontata. E, probabilme­nte, tre anni sono troppo pochi per sperarlo davvero. L’esperienza della Sga (la bad bank del Banco di Napoli) insegna che il tempo fa salire il valore delle sofferenze, certo. Ma serve tanto tempo.

Morale, è positivo che l’Eba proponga la creazione di una bad bank europea. È auspicabil­e che si faccia. Purché non sia l’ennesimo annuncio senza sostanza, frutto di un compromess­o al ribasso in Europa.

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