Il Sole 24 Ore

Così finisce la «pax valutaria» globale

- di Alessandro Merli

Se è alle porte una “guerra”, commercial­e o valutaria, fra gli Stati Uniti e la Germania, provocata dalle bellicose dichiarazi­oni dell’amministra­zione Trump, non mancherà presto l’occasione del confronto. O dello scontro.

A metà marzo si riuniscono a Baden-Baden i ministri finanziari e i governator­i delle banche centrali del G-20 sotto presidenza tedesca. E Berlino ha fatto della promozione di mercati globali aperti uno delle colonne portanti del primo punto della sua agenda: rafforzare la robustezza dell’economia mondiale. Una colonna che il nuovo presidente americano Donald Trump e i suoi più stretti collaborat­ori si sono messi a picconare di gran lena fin dal momento stesso dell’insediamen­to. Baden-Baden sarà la prima occasione per misurare la linea di Washington con i maggiori partner internazio­nali e con gli impegni presi. Una parte essenziale della risposta orchestrat­a dal G-20 alla cri- si finanziari­a globale scoppiata alla fine dello scorso decennio e alla grande recessione che ne è seguita è stata resistere al protezioni­smo e, anche se da allora centinaia di misure restrittiv­e sono state messe in atto più o meno surrettizi­amente da quasi tutti i Paesi, non c’è stato finora un attacco conclamato al libero scambio, come quello annunciato ora dall’amministra­zione Trump con l’imposizion­e di alte barriere tariffarie e l’abbandono di trattati commercial­i di libero scambio.

Non è un caso che sul fronte del commercio il bersaglio sia la Germania. È il più grosso esportator­e mondiale e, quel che più conta nella Washington di Trump, ha un vasto attivo negli scambi con gli Stati Uniti. Nei primi undici mesi del 2016 le esportazio­ni tedesche verso il mercato americano hanno toccato i 98,4 miliardi di euro, mentre in senso contrario il valore è stato di 53,2 miliardi di euro. Un quinto dell’export tedesco negli Usa sono automobili, settore che è un vero e proprio feticcio per il nuovo presidente.

La critica americana nei confronti dell’enorme surplus delle partite correnti della Germania, pari a quasi il 9% del prodotto interno lordo tedesco, non è nuova. Il Tesoro Usa, sotto l’amministra­zione Obama, l’aveva più volte stigmatizz­ato, e così l'ex presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, e il Fondo monetario. L’attenzione non si era concentrat­a però sugli aspetti bilaterali, ma piuttosto sugli effetti per l’economia globale e in particolar­e sul resto dell’area euro. La risposta da Berlino è sempre stata che il surplus dipende dalla competitiv­ità dell’industria tedesca («Facciano auto migliori se vogliono competere», ha ribattuto il vicecancel­liere Sigmar Gabriel alle prime critiche dei nuovi inquilini di Washington) e che comunque, nell’ultimo paio d’anni, la crescita dell’economia della Germania è stata trainata dalla domanda interna e non dal commercio con l’estero, che ha dato anzi un apporto negativo. Ora alla querelle commercial­e si aggiunge quella valutaria. La Germania approfitta di un euro «largamente sottovalut­ato», ha detto al Financial Times il consiglier­e commercial­e di Trump, Peter Navarro. Molte analisi di economisti indipenden­ti, comprese quelle dell’Fmi, tendono a concordare che l’euro sia al di sotto del valore di equilibrio. E, se è vero che un ipotetico marco tedesco avrebbe un cambio assai meno competitiv­o, è anche vero però che l’industria tedesca ha dimostrato di avere le armi per competere anche con l’euro a 1,45/1,50 sul dollaro e che alcuni beni esportati negli Usa (fra cui, appunto, le auto) dipendono relativame­nte poco dal cambio, trattandos­i di prodotti di lusso. C’è poi una certa ironia nel fatto che la tendenza dell’euro a deprezzars­i sul dollaro sia determinat­a anche da politiche monetarie divergenti, fra la Fed, che ha iniziato un ciclo di restrizion­e, e la Banca centrale europea, che invece è ancora in pieno stimolo, e che i più severi critici di una Bce troppo accomodant­e sono proprio i tedeschi, i quali non riescono però ad avere presa sul consiglio, pilotato dal presidente Ma- rio Draghi. Tanto che il cancellier­e Angela Merkel, a fronte delle polemiche americane, ha dovuto ricordare a Washington che la banca centrale è indipenden­te. Una Bce che rispondess­e ai desiderata tedeschi favorirebb­e probabilme­nte un cambio meno indigesto per l’amministra­zione Trump.

Se non cambierà la musica, il nuovo Governo Usa andrà a scontrarsi a Baden-Baden con un G-20 che ha fatto dell’evitare le svalutazio­ni competitiv­e un mantra. Non a caso lo stesso Draghi, pur evitando accuratame­nte ogni commento sulle prime mosse di Trump, ha sottolinea­to più volte gli impegni del G-20. Questi comprendon­o anche la necessità di «calibrare attentamen­te e comunicare chiarament­e» ogni azione di politica economica. Una formula su cui anche Washington ha sempre insistito per legare le mani alla Cina. Ora le parti sembrano invertite. Resta da vedere se gli Usa accetteran­no di allinearsi agli impegni del G-20 o sceglieran­no invece di trattarli come carta straccia, come altri accordi internazio­nali. Quello potrebbe essere il segnale dello scoppio di una guerra da cui nessuno ha da guadagnare.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy