Così finisce la «pax valutaria» globale
Se è alle porte una “guerra”, commerciale o valutaria, fra gli Stati Uniti e la Germania, provocata dalle bellicose dichiarazioni dell’amministrazione Trump, non mancherà presto l’occasione del confronto. O dello scontro.
A metà marzo si riuniscono a Baden-Baden i ministri finanziari e i governatori delle banche centrali del G-20 sotto presidenza tedesca. E Berlino ha fatto della promozione di mercati globali aperti uno delle colonne portanti del primo punto della sua agenda: rafforzare la robustezza dell’economia mondiale. Una colonna che il nuovo presidente americano Donald Trump e i suoi più stretti collaboratori si sono messi a picconare di gran lena fin dal momento stesso dell’insediamento. Baden-Baden sarà la prima occasione per misurare la linea di Washington con i maggiori partner internazionali e con gli impegni presi. Una parte essenziale della risposta orchestrata dal G-20 alla cri- si finanziaria globale scoppiata alla fine dello scorso decennio e alla grande recessione che ne è seguita è stata resistere al protezionismo e, anche se da allora centinaia di misure restrittive sono state messe in atto più o meno surrettiziamente da quasi tutti i Paesi, non c’è stato finora un attacco conclamato al libero scambio, come quello annunciato ora dall’amministrazione Trump con l’imposizione di alte barriere tariffarie e l’abbandono di trattati commerciali di libero scambio.
Non è un caso che sul fronte del commercio il bersaglio sia la Germania. È il più grosso esportatore mondiale e, quel che più conta nella Washington di Trump, ha un vasto attivo negli scambi con gli Stati Uniti. Nei primi undici mesi del 2016 le esportazioni tedesche verso il mercato americano hanno toccato i 98,4 miliardi di euro, mentre in senso contrario il valore è stato di 53,2 miliardi di euro. Un quinto dell’export tedesco negli Usa sono automobili, settore che è un vero e proprio feticcio per il nuovo presidente.
La critica americana nei confronti dell’enorme surplus delle partite correnti della Germania, pari a quasi il 9% del prodotto interno lordo tedesco, non è nuova. Il Tesoro Usa, sotto l’amministrazione Obama, l’aveva più volte stigmatizzato, e così l'ex presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, e il Fondo monetario. L’attenzione non si era concentrata però sugli aspetti bilaterali, ma piuttosto sugli effetti per l’economia globale e in particolare sul resto dell’area euro. La risposta da Berlino è sempre stata che il surplus dipende dalla competitività dell’industria tedesca («Facciano auto migliori se vogliono competere», ha ribattuto il vicecancelliere Sigmar Gabriel alle prime critiche dei nuovi inquilini di Washington) e che comunque, nell’ultimo paio d’anni, la crescita dell’economia della Germania è stata trainata dalla domanda interna e non dal commercio con l’estero, che ha dato anzi un apporto negativo. Ora alla querelle commerciale si aggiunge quella valutaria. La Germania approfitta di un euro «largamente sottovalutato», ha detto al Financial Times il consigliere commerciale di Trump, Peter Navarro. Molte analisi di economisti indipendenti, comprese quelle dell’Fmi, tendono a concordare che l’euro sia al di sotto del valore di equilibrio. E, se è vero che un ipotetico marco tedesco avrebbe un cambio assai meno competitivo, è anche vero però che l’industria tedesca ha dimostrato di avere le armi per competere anche con l’euro a 1,45/1,50 sul dollaro e che alcuni beni esportati negli Usa (fra cui, appunto, le auto) dipendono relativamente poco dal cambio, trattandosi di prodotti di lusso. C’è poi una certa ironia nel fatto che la tendenza dell’euro a deprezzarsi sul dollaro sia determinata anche da politiche monetarie divergenti, fra la Fed, che ha iniziato un ciclo di restrizione, e la Banca centrale europea, che invece è ancora in pieno stimolo, e che i più severi critici di una Bce troppo accomodante sono proprio i tedeschi, i quali non riescono però ad avere presa sul consiglio, pilotato dal presidente Ma- rio Draghi. Tanto che il cancelliere Angela Merkel, a fronte delle polemiche americane, ha dovuto ricordare a Washington che la banca centrale è indipendente. Una Bce che rispondesse ai desiderata tedeschi favorirebbe probabilmente un cambio meno indigesto per l’amministrazione Trump.
Se non cambierà la musica, il nuovo Governo Usa andrà a scontrarsi a Baden-Baden con un G-20 che ha fatto dell’evitare le svalutazioni competitive un mantra. Non a caso lo stesso Draghi, pur evitando accuratamente ogni commento sulle prime mosse di Trump, ha sottolineato più volte gli impegni del G-20. Questi comprendono anche la necessità di «calibrare attentamente e comunicare chiaramente» ogni azione di politica economica. Una formula su cui anche Washington ha sempre insistito per legare le mani alla Cina. Ora le parti sembrano invertite. Resta da vedere se gli Usa accetteranno di allinearsi agli impegni del G-20 o sceglieranno invece di trattarli come carta straccia, come altri accordi internazionali. Quello potrebbe essere il segnale dello scoppio di una guerra da cui nessuno ha da guadagnare.