Perché la Cina non ha interesse a svalutare il renminbi
Nel Forum economico mondiale recentemente conclusosi a Davos, in Svizzera, il presidente cinese Xi Jinping ha pronunciato una forte difesa della globalizzazione, riaffermando la sua politica di «porte aperte» e impegnandosi a non cercare mai di scatenare una guerra commerciale o trarre beneficio dalla svalutazione della sua moneta. Poco dopo, il presidente americano Donald Trump, nel suo discorso di insediamento, ha preso l’impegno opposto: usando la parola «proteggere» sette volte, ha confermato che la sua dottrina «Prima l’America» significa protezionismo.
Trump parla degli Stati Uniti come di un’economia in declino che dev’essere rivitalizzata. Ma la realtà è che l’economia Usa negli ultimi due anni è andata piuttosto bene. Il valore del biglietto verde è salito in modo particolare negli ultimi mesi, perché le promesse di Trump di incrementare la spesa pubblica, tagliare le tasse alle imprese e ridurre la regolamentazione hanno ispirato una «fuga verso la qualità» da parte degli investitori. In cambio, la moneta cinese, il renminbi, si è indebolita notevolmente, passando da un valore di 6,2 contro il dollaro alla fine del 2014 a 6,95 alla fine dello scorso anno, a causa soprattutto del calo degli investimenti e delle esportazioni.
Trump ha accusato la Cina di svalutare intenzionalmente il renminbi per rendere più competitive le sue esportazioni. Ma è vero semmai il contrario. Di fronte alle forti pressioni al ribasso sulla valuta nazionale, le autorità di Pechino hanno cercato di mantenere il tasso di cambio col dollaro relativamente stabile, sforzo che ha contribuito a un calo delle riserve valutarie estere cinesi di oltre 1.000 miliardi di dollari.
La Cina non vede di buon occhio un deprezzamento del renminbi, esattamente come Trump. Ma nessun Paese è in grado di esercitare un pieno controllo sul suo tasso di cambio: dagli sviluppi tecnologici ai contrasti geopolitici, fino ai cambiamenti delle politiche tra i principali partner commerciali, le cause del declino del renminbi, e dunque i fattori che influenzano la politica valutaria della Cina, sono varie e complesse.
Uno dei fattori che influenzano i tassi di cambio è la rapida trasformazione della catena logistica globale. L’evoluzione dei modelli di consumo, dei sistemi di regolamentazione e delle tecnologie digitali ha incoraggiato negli ultimi tempi un aumento della produzione interna. Negli Stati Uniti, il settore manifatturiero ha ricevuto una spinta da tecnologie come la robotica e la stampa 3D: questo ha sostenuto la ripresa economica senza incrementare le importazioni dall’Asia.
Nel frattempo, la Cina si sta già spostando da un modello di crescita trainato dalle esportazioni a un modello basato su un livello più elevato di consumi interni, e in questo senso un renminbi più forte potrebbe servire meglio l’economia. Il surplus delle partite correnti della Cina è sceso nel 2016 ad appena il 2,1 per cento del Pil, e il Fondo monetario internazionale prevede che scenderà ulteriormente, man mano che le esportazioni continueranno a calare.
Ma le partite correnti non sono l’unico fattore rilevante. Considerando il ruolo dei flussi di capitale nei tassi di cambio, l’economista della Banca dei regolamenti internazionali Claudio Borio afferma che bisogna guardare anche al conto finanziario. E pure in questo caso, un renminbi che si svaluta non è utile alla Cina.
Secondo il Fmi, di qui al 2021 la posizione patrimoniale netta degli Stati Uniti probabilmente si deteriorerà, con le passività nette che saliranno dal 41 al 63 per cento del Pil, mentre quella della Cina rimarrà stabile. Tutto questo significa che saranno altri Paesi in surplus come la Germania e il Giappone a finanziare, probabilmente, il crescente disavanzo statunitense, sia con le partite correnti sia con il conto finanziario.
Ma forse il problema più grande per la Cina oggi risiede nella bilancia dei movimenti di capitale. Da quando il renminbi ha cominciato la sua discesa, nel 2015, l’incentivo a ridurre il debito estero e incrementare le attività all’estero si è fatto più forte.
Il debito estero complessivo della Cina (pubblico e privato), che era già molto basso rispetto agli standard internazionali, è sceso dal 9,4 per cento del Pil (975,2 miliardi di dollari) alla fine del 2014 al 6,4 per cento del Pil (701 miliardi di dollari) alla fine dell’anno scorso. E questa tendenza sembra proseguire, con i cittadini cinesi che continuano a diversificare il loro portafoglio di attività in linea con la diffusione di stili di vita sempre più internazionali. Un renminbi più debole non farà che rafforzare la tendenza.
Naturalmente Trump, che ha
L’OPZIONE La scelta migliore potrebbe essere l’ancoraggio al dollaro con un margine di oscillazione del 5%
ripetutamente minacciato di imporre dazi sulle merci cinesi, potrebbe influenzare anche la politica valutaria della Cina. Ma in un certo senso la sua insolenza lo rende irrilevante ai fini pratici. Dopo tutto, a giudicare dai suoi comportamenti passati, sembra verosimile che accuserà la Cina di manipolare il tasso di cambio indipendentemente dalla linea che sceglieranno le autorità di Pechino: una moneta lasciata completamente libera di fluttuare e pienamente convertibile, la situazione corrente di fluttuazione amministrata o un tasso di cambio ancorato.
E allora qual è l’opzione migliore per la Cina? Un tasso di cambio libero può essere escluso fin da subito. Nell’attuale regime monetario internazionale, condizionato dal dollaro, un approccio di questo tipo produrrebbe troppa volatilità.
Ma anche il regime attuale sta diventando difficile da gestire. Considerando il costo dei recenti sforzi per mantenere una qualche parvenza di stabilità del tasso di cambio, sembra che nemmeno l’equivalente di 3mila miliardi di dollari di riserve estere sia sufficiente a tenere sotto controllo la fluttuazione della valuta.
Per il momento, tuttavia, l’opzione migliore per la Cina probabilmente è quella di ancorare il renminbi al dollaro, con una fascia di oscillazione del 5 per cento al cui interno la Banca centrale opererebbe interventi limitati, per ricondurre il mercato alla parità sul lungo periodo. Gli investitori, dopo tutto, sono focalizzati quasi esclusivamente sul tasso di cambio renminbi-dollaro.
Qualunque strada scelga, la Cina pagherà un prezzo pesante per la sua volontà di difendere la globalizzazione e perseguire la stabilità del cambio. In un mondo in cui annunciare nuove politiche – e quindi muovere i mercati – è facile come inviare un tweet, la politica prevarrà sul dibattito economico razionale.