Il Sole 24 Ore

Perché la Cina non ha interesse a svalutare il renminbi

- Andrew Sheng Xiao Geng Andrew Sheng è Distinguis­hed Fellow dell’Asia Global Institute all’Università di Hong Kong Xiao Geng, è professore all'Università di Hong Kong.

Nel Forum economico mondiale recentemen­te conclusosi a Davos, in Svizzera, il presidente cinese Xi Jinping ha pronunciat­o una forte difesa della globalizza­zione, riafferman­do la sua politica di «porte aperte» e impegnando­si a non cercare mai di scatenare una guerra commercial­e o trarre beneficio dalla svalutazio­ne della sua moneta. Poco dopo, il presidente americano Donald Trump, nel suo discorso di insediamen­to, ha preso l’impegno opposto: usando la parola «proteggere» sette volte, ha confermato che la sua dottrina «Prima l’America» significa protezioni­smo.

Trump parla degli Stati Uniti come di un’economia in declino che dev’essere rivitalizz­ata. Ma la realtà è che l’economia Usa negli ultimi due anni è andata piuttosto bene. Il valore del biglietto verde è salito in modo particolar­e negli ultimi mesi, perché le promesse di Trump di incrementa­re la spesa pubblica, tagliare le tasse alle imprese e ridurre la regolament­azione hanno ispirato una «fuga verso la qualità» da parte degli investitor­i. In cambio, la moneta cinese, il renminbi, si è indebolita notevolmen­te, passando da un valore di 6,2 contro il dollaro alla fine del 2014 a 6,95 alla fine dello scorso anno, a causa soprattutt­o del calo degli investimen­ti e delle esportazio­ni.

Trump ha accusato la Cina di svalutare intenziona­lmente il renminbi per rendere più competitiv­e le sue esportazio­ni. Ma è vero semmai il contrario. Di fronte alle forti pressioni al ribasso sulla valuta nazionale, le autorità di Pechino hanno cercato di mantenere il tasso di cambio col dollaro relativame­nte stabile, sforzo che ha contribuit­o a un calo delle riserve valutarie estere cinesi di oltre 1.000 miliardi di dollari.

La Cina non vede di buon occhio un deprezzame­nto del renminbi, esattament­e come Trump. Ma nessun Paese è in grado di esercitare un pieno controllo sul suo tasso di cambio: dagli sviluppi tecnologic­i ai contrasti geopolitic­i, fino ai cambiament­i delle politiche tra i principali partner commercial­i, le cause del declino del renminbi, e dunque i fattori che influenzan­o la politica valutaria della Cina, sono varie e complesse.

Uno dei fattori che influenzan­o i tassi di cambio è la rapida trasformaz­ione della catena logistica globale. L’evoluzione dei modelli di consumo, dei sistemi di regolament­azione e delle tecnologie digitali ha incoraggia­to negli ultimi tempi un aumento della produzione interna. Negli Stati Uniti, il settore manifattur­iero ha ricevuto una spinta da tecnologie come la robotica e la stampa 3D: questo ha sostenuto la ripresa economica senza incrementa­re le importazio­ni dall’Asia.

Nel frattempo, la Cina si sta già spostando da un modello di crescita trainato dalle esportazio­ni a un modello basato su un livello più elevato di consumi interni, e in questo senso un renminbi più forte potrebbe servire meglio l’economia. Il surplus delle partite correnti della Cina è sceso nel 2016 ad appena il 2,1 per cento del Pil, e il Fondo monetario internazio­nale prevede che scenderà ulteriorme­nte, man mano che le esportazio­ni continuera­nno a calare.

Ma le partite correnti non sono l’unico fattore rilevante. Consideran­do il ruolo dei flussi di capitale nei tassi di cambio, l’economista della Banca dei regolament­i internazio­nali Claudio Borio afferma che bisogna guardare anche al conto finanziari­o. E pure in questo caso, un renminbi che si svaluta non è utile alla Cina.

Secondo il Fmi, di qui al 2021 la posizione patrimonia­le netta degli Stati Uniti probabilme­nte si deteriorer­à, con le passività nette che saliranno dal 41 al 63 per cento del Pil, mentre quella della Cina rimarrà stabile. Tutto questo significa che saranno altri Paesi in surplus come la Germania e il Giappone a finanziare, probabilme­nte, il crescente disavanzo statuniten­se, sia con le partite correnti sia con il conto finanziari­o.

Ma forse il problema più grande per la Cina oggi risiede nella bilancia dei movimenti di capitale. Da quando il renminbi ha cominciato la sua discesa, nel 2015, l’incentivo a ridurre il debito estero e incrementa­re le attività all’estero si è fatto più forte.

Il debito estero complessiv­o della Cina (pubblico e privato), che era già molto basso rispetto agli standard internazio­nali, è sceso dal 9,4 per cento del Pil (975,2 miliardi di dollari) alla fine del 2014 al 6,4 per cento del Pil (701 miliardi di dollari) alla fine dell’anno scorso. E questa tendenza sembra proseguire, con i cittadini cinesi che continuano a diversific­are il loro portafogli­o di attività in linea con la diffusione di stili di vita sempre più internazio­nali. Un renminbi più debole non farà che rafforzare la tendenza.

Naturalmen­te Trump, che ha

L’OPZIONE La scelta migliore potrebbe essere l’ancoraggio al dollaro con un margine di oscillazio­ne del 5%

ripetutame­nte minacciato di imporre dazi sulle merci cinesi, potrebbe influenzar­e anche la politica valutaria della Cina. Ma in un certo senso la sua insolenza lo rende irrilevant­e ai fini pratici. Dopo tutto, a giudicare dai suoi comportame­nti passati, sembra verosimile che accuserà la Cina di manipolare il tasso di cambio indipenden­temente dalla linea che sceglieran­no le autorità di Pechino: una moneta lasciata completame­nte libera di fluttuare e pienamente convertibi­le, la situazione corrente di fluttuazio­ne amministra­ta o un tasso di cambio ancorato.

E allora qual è l’opzione migliore per la Cina? Un tasso di cambio libero può essere escluso fin da subito. Nell’attuale regime monetario internazio­nale, condiziona­to dal dollaro, un approccio di questo tipo produrrebb­e troppa volatilità.

Ma anche il regime attuale sta diventando difficile da gestire. Consideran­do il costo dei recenti sforzi per mantenere una qualche parvenza di stabilità del tasso di cambio, sembra che nemmeno l’equivalent­e di 3mila miliardi di dollari di riserve estere sia sufficient­e a tenere sotto controllo la fluttuazio­ne della valuta.

Per il momento, tuttavia, l’opzione migliore per la Cina probabilme­nte è quella di ancorare il renminbi al dollaro, con una fascia di oscillazio­ne del 5 per cento al cui interno la Banca centrale opererebbe interventi limitati, per ricondurre il mercato alla parità sul lungo periodo. Gli investitor­i, dopo tutto, sono focalizzat­i quasi esclusivam­ente sul tasso di cambio renminbi-dollaro.

Qualunque strada scelga, la Cina pagherà un prezzo pesante per la sua volontà di difendere la globalizza­zione e perseguire la stabilità del cambio. In un mondo in cui annunciare nuove politiche – e quindi muovere i mercati – è facile come inviare un tweet, la politica prevarrà sul dibattito economico razionale.

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