Il Sole 24 Ore

Diffamazio­ne «attenuata» se via Fb

Agli illeciti sul profilo non si applicano le regole (severe) della stampa

- Alessandro Galimberti

pFacebook è un «mezzo di pubblicità» capace di amplificar­e indefinita­mente la diffamazio­ne, ma il social network non può paradossal­mente essere equiparato alla stampa, medium ormai molto meno pervasivo del web 2.0 eppure perseguibi­le con sanzioni penali ben più gravi.

La Quinta sezione della Cassazione - sentenza 4873/17, depositata ieri - torna ancora una volta sul tema, sensibilis­simo, della legge applicabil­e al mondo digitale, scontrando­si però ancora una volta con regole non più attuali, o comunque da ri- pensare e riequilibr­are.

Il caso all’esame dei giudici della Quinta era stato innescato dal procurator­e della Repubblica di Imperia; il capo dell’ufficio ligure aveva impugnato per «abnormità» l’ordinanza con cui il Gip locale aveva riqualific­ato un fascicolo relativo agli “apprezzame­nti” via Facebook pubbli- cati da un imputato catanese 60enne nei confronti di un terzo, fatto avvenuto a Diano Marina nell’estate del 2013. Per il giudice preliminar­e non si trattò di diffamazio­ne aggravata dal fatto determinat­o e «dal mezzo della stampa», ma di semplice diffamazio­ne aggravata dal «mezzo di pubblicità» (Facebook, appunto) e ovviamente dall’attribuzio­ne del fatto determinat­o. Differenza non da poco, quella sottolinea­ta dal Gip: l’esclusione della legge 47/1948 (quella sulla stampa) di fatto dimezza la pena edittale (da 6 a 3 anni nel massimo) e, come conseguenz­a, determina processual­mente la citazione diretta a giudizio - impugnata dal procurator­e quale presuppost­o dell’ordinanza «abnorme» firmata dal Gip.

La Cassazione però ha bocciato il ricorso della Procura ligure, ribadendo un precedente del 2015 (31022) secondo cui la bacheca del social network può essere incasellat­a agevolment­e nell’articolo 595 del Codice penale, ma solo nella seconda ipotesi del comma 3 (non «stampa» ma «altro mezzo di pubblicità»). Non è quindi applicabil­e la legge 47 del 1948 (Disposizio­ni sulla stampa, diffamazio­ne, reati attinenti alla profession­e e processo penale) che per la diffamazio- ne aggravata dal fatto determinat­o prevede da 1 a 6 anni di carcere (articolo 1 3).

Già due anni fa le Sezioni unite, disegnando una «interpreta­zione evolutiva e costituzio­nalmente orientata del termine stampa», avevano ricompreso nel concetto le testate giornalist­iche online, ma avevano anche aggiunto che «tale operazione ermeneutic­a non può riguardare in blocco tutti i nuovi media, informatic­i e telematici di manifestaz­ione del pensiero (forum, blog, newsletter mailing list, Fb etc) ma deve rimanere circoscrit­to a quei casi che, per i profili struttural­e e finalistic­o, sono riconducib­ili al concetto di stampa » : caratteriz­zata quest’ultima, in sostanza, dalla «profession­alità» di chi scrivendo diffama.

LA «PROFESSION­ALITÀ» I nuovi media sono «mezzi di pubblicità» non equiparabi­li ai giornali dove chi scrive lo fa per profession­e

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