Il fuoco amico di «America first»
Siamo arrivati alle prime vittime del “fuoco amico”, le vittime di “America First”. È questa ossessione del Presidente Donald Trump a spiegare le sue dichiarazioni inattese, provocatorie, polemiche, persino di rottura con molti alleati americani. Sia che si parli di commercio, di sicurezza, di immigrazione, di terrorismo, di Paesi canaglia, non è la policy a prevalere, non la scelta migliore, la strategia studiata dagli esperti, calibrata i n varie simulazioni oppure il dialogo con gli alleati, l’utilizzo della diplomazia. Nulla di tutto questo.
Vince subito l’istinto dello slogan semplice, del pensiero intuitivo: qual è la miglior discriminante per rifare “America Great”? Semplice, occorre passare per “America First”. Dobbiamo abituarci e prendere questi slogan come un postulato: occorre mettere l’interesse della potenza americana davanti a tutto. Non è un cambiamento da poco. Il grande vanto americano di una delle dichiarazioni di indipendenza più poetiche e ispirate nella storia della politica o la tradizione di essere stata l’unica potenza pervasa da quell’”eccezionalismo” che poggia sull’altruismo, con la Presidenza Trump sono spariti.
E dire che ci aveva avvertito. Lo aveva detto chiaramente durante il suo discorso inaugurale: arricciava gli occhi, rimpiccioliva la piccola bocca, alzava l’indice e continuava a ripetere, “America First”. Poi è passato dalla teoria alla pratica: negli ultimi dieci giorni le vittime del fuoco amico sono state la Germania, l’Europa in genere, il Messico, il Giappone e da ultimo l’Australia. A un certo punto, nella ricerca di una spiegazione strategica per le uscite inattese di Donald Trump sul piano internazionale si è pensato che potesse voler costituire una sorta di supremazia anglo-americana. Il mondo “inglese” infatti era sempre stato in qualche modo isolato dal pericolo di attacchi.
La cornice della visita di Theresa May, la promessa di un accordo commerciale bilaterale antieuropa, l’invito a cena da parte della Regina d’Inghilterra, il busto di Churchill riammesso nell’Ufficio Ovale, l’invio del suo sostenitore Woody Johnson (erede della Johnson&Johnson) come Ambasciatore a Londra, diventavano il contrappunto della “special relationship” proclamata da Trump.
Giorni fa abbiamo appreso che Peter Thiel, amico del Presidente e suo unico sostenitore e rappresentante sia della comunità gay che di quella hi tech, era diventato (controverso) cittadino della Nuova Zelanda, grande paese anglofono nei Mari del Sud. Si allargava l’abbraccio? Forse. Poco lontano c’è l’Australia da sempre un paese fratello. Pensate alla mappa globale, pensate al mercato libero allargato al Commonwealth britannico. Eppure anche questa ipotesi è tramontata miseramente nel “fuoco amico” del principio “America First”. In questo caso, durante la telefonata di alcuni giorni fra Trump e il primo ministro australiano Malcolm Turnbull. Quando il suo “alleato”, gli ha ricordato l’impegno americano di accogliere 1.300 rifugiati arrivati da Papua e dalla Nuova Guinea, Trump è esploso. «E' l'accordo più stupido della storia! » twittava Trump, rinnegando un impegno internazionale del suo paese. E su Papua e Nuova Guinea, la determinante “America First” frantumava persino il sogno della “Global Special Relationship” anglo americana.
Il resto è storia. La Germania usa il tasso di cambio per sfruttatare gli Stati Uniti d’America; il Messico potrebbe ricevere “l’aiuto” di soldati americani. Forse Trump scherzava, ma sono cose che non si fanno. E Nieto è diventato un’altra vittima del “fuoco amico” generato da “America First”. Il principio ovviamente si estende anche ai paesi (finora) “partner” come la Cina. Trump ha denunciato aspramente, come sa fare lui, la maniplazione valutaria cinese, ha detto che impedirà l’accesso cinese alle isole “militari”, che la Cina ha costruito nei mari cinesi del Sud e ha detto che forse rinuncerà alla “One China Policy”. Pechino ha già equiparato la posizione americana a una dichiarazione di guerra. Dopo un breve flirt a distanza, Trump è stato ambiguo anche con la Russia; ha minacciato di azioni militari l’Iran per certi test missilistici. Insomma ce n’è per tutti. Dietro la ribellione trumpiana contro convenzioni diplomatiche di tradizioni secolari c’è sempre lo stesso obiettivo, “America Great Again”. Si capisce e ce lo ha detto. Ma ci preoccupiamo lo stesso: è inevitabile chiedersi quante vittime del fuoco amico in nome di “America First”dovremo contare prima che da qualche parte la corda si rompa.