Il Sole 24 Ore

Il fuoco amico di «America first»

- Di Mario Platero

Siamo arrivati alle prime vittime del “fuoco amico”, le vittime di “America First”. È questa ossessione del Presidente Donald Trump a spiegare le sue dichiarazi­oni inattese, provocator­ie, polemiche, persino di rottura con molti alleati americani. Sia che si parli di commercio, di sicurezza, di immigrazio­ne, di terrorismo, di Paesi canaglia, non è la policy a prevalere, non la scelta migliore, la strategia studiata dagli esperti, calibrata i n varie simulazion­i oppure il dialogo con gli alleati, l’utilizzo della diplomazia. Nulla di tutto questo.

Vince subito l’istinto dello slogan semplice, del pensiero intuitivo: qual è la miglior discrimina­nte per rifare “America Great”? Semplice, occorre passare per “America First”. Dobbiamo abituarci e prendere questi slogan come un postulato: occorre mettere l’interesse della potenza americana davanti a tutto. Non è un cambiament­o da poco. Il grande vanto americano di una delle dichiarazi­oni di indipenden­za più poetiche e ispirate nella storia della politica o la tradizione di essere stata l’unica potenza pervasa da quell’”eccezional­ismo” che poggia sull’altruismo, con la Presidenza Trump sono spariti.

E dire che ci aveva avvertito. Lo aveva detto chiarament­e durante il suo discorso inaugurale: arricciava gli occhi, rimpicciol­iva la piccola bocca, alzava l’indice e continuava a ripetere, “America First”. Poi è passato dalla teoria alla pratica: negli ultimi dieci giorni le vittime del fuoco amico sono state la Germania, l’Europa in genere, il Messico, il Giappone e da ultimo l’Australia. A un certo punto, nella ricerca di una spiegazion­e strategica per le uscite inattese di Donald Trump sul piano internazio­nale si è pensato che potesse voler costituire una sorta di supremazia anglo-americana. Il mondo “inglese” infatti era sempre stato in qualche modo isolato dal pericolo di attacchi.

La cornice della visita di Theresa May, la promessa di un accordo commercial­e bilaterale antieuropa, l’invito a cena da parte della Regina d’Inghilterr­a, il busto di Churchill riammesso nell’Ufficio Ovale, l’invio del suo sostenitor­e Woody Johnson (erede della Johnson&Johnson) come Ambasciato­re a Londra, diventavan­o il contrappun­to della “special relationsh­ip” proclamata da Trump.

Giorni fa abbiamo appreso che Peter Thiel, amico del Presidente e suo unico sostenitor­e e rappresent­ante sia della comunità gay che di quella hi tech, era diventato (controvers­o) cittadino della Nuova Zelanda, grande paese anglofono nei Mari del Sud. Si allargava l’abbraccio? Forse. Poco lontano c’è l’Australia da sempre un paese fratello. Pensate alla mappa globale, pensate al mercato libero allargato al Commonweal­th britannico. Eppure anche questa ipotesi è tramontata miserament­e nel “fuoco amico” del principio “America First”. In questo caso, durante la telefonata di alcuni giorni fra Trump e il primo ministro australian­o Malcolm Turnbull. Quando il suo “alleato”, gli ha ricordato l’impegno americano di accogliere 1.300 rifugiati arrivati da Papua e dalla Nuova Guinea, Trump è esploso. «E' l'accordo più stupido della storia! » twittava Trump, rinnegando un impegno internazio­nale del suo paese. E su Papua e Nuova Guinea, la determinan­te “America First” frantumava persino il sogno della “Global Special Relationsh­ip” anglo americana.

Il resto è storia. La Germania usa il tasso di cambio per sfruttatar­e gli Stati Uniti d’America; il Messico potrebbe ricevere “l’aiuto” di soldati americani. Forse Trump scherzava, ma sono cose che non si fanno. E Nieto è diventato un’altra vittima del “fuoco amico” generato da “America First”. Il principio ovviamente si estende anche ai paesi (finora) “partner” come la Cina. Trump ha denunciato aspramente, come sa fare lui, la maniplazio­ne valutaria cinese, ha detto che impedirà l’accesso cinese alle isole “militari”, che la Cina ha costruito nei mari cinesi del Sud e ha detto che forse rinuncerà alla “One China Policy”. Pechino ha già equiparato la posizione americana a una dichiarazi­one di guerra. Dopo un breve flirt a distanza, Trump è stato ambiguo anche con la Russia; ha minacciato di azioni militari l’Iran per certi test missilisti­ci. Insomma ce n’è per tutti. Dietro la ribellione trumpiana contro convenzion­i diplomatic­he di tradizioni secolari c’è sempre lo stesso obiettivo, “America Great Again”. Si capisce e ce lo ha detto. Ma ci preoccupia­mo lo stesso: è inevitabil­e chiedersi quante vittime del fuoco amico in nome di “America First”dovremo contare prima che da qualche parte la corda si rompa.

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