Il rialzo dell’oro segnala i rischi della politica americana
Le attese per la «rivoluzione» Trump si sono tradotte sui mercati finanziari con un brusco rialzo dei rendimenti dei Treasury (dunque con l’altrettanto ampio scivolone dei prezzi), il balzo del dollaro, la caduta dell’oro e il volo di Wall Street. L’euforia per i promessi tagli fiscali, la spesa per opere pubbliche e regole amiche per banche e imprese del settore energetico è durata intatta fin verso la metà di dicembre. E, già prima di Natale, Treasury, valuta e oro avevano iniziato a invertire la tendenza. Ma non la borsa che ha proseguito la corsa fino a pochi giorni fa.
Tuttavia, mentre Wall Street ha voluto concentrarsi solo sugli aspetti benefici della trumponomic, il prezzo dell’oro, recuperando l’8% e riportandosi poco sotto i livelli d’inizio novembre, sta invece segnalando i rischi della politica economica di Trump e in primo luogo quelli legati al protezionismo. Si dirà che l’andamento dell’oro è in funzione del dollaro, poiché in questa valuta è espresso: se non fosse che anche traducendo le quotazioni in euro, il rialzo del metallo resta comunque solido (+4%). Se Wall Street pare tenere le posizioni record, seppure al prezzo di una crescente volatilità (un nervosismo che l’indice Vix non riesce ancora a misurare), ci sono chiari segnali che la luna di miele tra i mercati e il nuovo presidente è prossima alla fine.
Come si muoveranno i mercati nelle prossime settimane o nei prossimi mesi, è difficile dire, anche perché, al di là delle forti affermazioni verbali di Trump, poco si sa delle riforme che il presidente vorrà intraprendere. E in questa attesa, la stessa Fed non è in grado, giustamente, di mutare la moderata traiettoria della propria politica monetaria. Se Trump farà quanto promesso, la recente retorica sul dollaro troppo forte sarà solo una fastidiosa voce grossa. Come sostengono gli analisti di Goldman Sachs (la banca più vicina all’amministrazione americana attuale), «un misto di politica che combini stimoli fiscali e protezionismo è difficilmente conciliabile con una valuta debole, anche se è quello che vuole » la Casa Bianca.
Ancor più dura l’analisi di Nouriel Roubini, che smonta l’intero impianto della trumponomic destinata a far salire inflazione, rendimenti obbligazionari, tassi d’interesse e, di conseguenza, far apprezzare sempre più il dollaro. L’economista si spinge oltre, sostenendo che l’imposizione di tariffe doganali finirebbe per minare l’intera crescita mondiale, danneggiando l’economia e i mercati: come avvenne nel 1930, quando una politica di forti dazi doganali scatenò una guerra commerciale che esasperò la depressione. Anche se Trump fosse tentato di rendere più docile la banca centrale, le cose non cambierebbero e il solo modo per frenare l’ascesa della valuta sarebbe imporre controlli sui flussi di capitale: una politica da Paesi emergenti.