Il Sole 24 Ore

Ma per fermare l’esodo in mare è decisivo il controllo sulla terra

- Di Roberto Bongiorni

Per fermare l’esodo in mare occorre agire anche, e soprattutt­o, sulla terra. Un maggiore impegno dell’Unione europea, tante volte richiesto dal Governo italiano, è senz’altro indispensa­bile. Ma per centrare l’ambizioso obiettivo annunciato ieri dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk – ovvero chiudere la rotta migratoria del Mediterran­eo centrale – la soluzione passa anche per questa via: un controllo effettivo delle coste libiche, e possibilme­nte anche delle regioni meridional­i a ridosso dell’Algeria, da cui transitano migliaia di migranti. Facile a dirsi, meno a farsi. Perché stabilizza­re la Libia significa mettere d’accordo le fazioni rivali che si spartiscon­o il territorio e colpire quel coacervo di clan che si arricchisc­ono con il business della tratta di esseri umani.

In caso contrario il tratto del Mediterran­eo che separa la costa libica da quella italiana e greca rischia di rimanere un grande cimitero sottomarin­o.

Il neo premier libico Fayez Serraj, che ha firmato ieri sera un’intesa sui migranti con il premier italiano Paolo Gentiloni, lo aveva ripetuto ancora da Bruxelles; «L’ammontare di denaro che l’Europa ha destinato alla Libia è una piccola cifra». Non ha tutti i torti. E se anche arrivasser­o i 200 milioni di euro destinati alle autorità libiche per rafforzare le sua polizia marittima, sono comunque poca cosa rispetto all’accordo con la Turchia, entrato in vigore nel 2016; sei miliardi di euro suddivisi in due tranche.

La diplomazia italiana aveva più volte sollecitat­o Bruxelles con una serie di suggerimen­ti: un appoggio esplicito al governo libico di accordo nazionale; il sostegno all’addestrame­nto della guardia costiera libica e della polizia marittima del ministero degli Interni. Oltre al finanziame­nto di 200 milioni di euro nel Fondo fiduciario per l’Africa.

Ma l’impression­e è che misure di questo tipo, per quanto necessarie, non siano sufficient­i. Ed anche se il Governo di Serraj reagisse con una serie di respingime­nti in mare – peraltro contrari al diritto internazio­nale – sulle coste libiche si formerebbe una nuova pentola a pressione pronta ad esplodere .

In verità l’esperto premier libico, su cui la comunità internazio­nale affida le speranze per stabilizza­re la Libia e liberarla dalla presenza dell’Isis, ha preferito non soffermars­i su un aspetto problemati­co. La Libia che controlla il nuovo Governo di accordo nazionale, insediatos­i lo scorso marzo a Tripoli, è solo una parte della Libia:la Tripolitan­ia e poco altro. Ed anche nelle aree in cui Serraj afferma di esercitare la sua autorità le alleanze che ha stretto non appaiono così solide come ci si auspichere­bbe.

Serraj è un politico onesto. È riuscito anche a guadagnare un consenso insperato intorno a lui. Ma i risultati non sono stati sufficient­i. E più trascorre il tempo, più si indebolisc­e. Viceversa a rafforzars­i è il “signore della Cirenaica”, il generale Khalifa Haftar, il suo rivale. Il suo “esercito” ormai controlla tutta la fascia costiera che si estende dal confine con l’Egitto fino al terminale petrolifer­o di al-Sidra, non molto distante da Sirte, dove agiscono le ultime sacche dell’Isis. Sulla costa occidental­e Zauia e Zuara sono note per essere le roccaforti degli scafisti. Ma vi sono altri centri minori, che cambiano a seconda del momento. Secondo i politici libici più realisti per sconfigger­e l’immigrazio­ne occorrereb­be anche una collaboraz­ione attiva con i clan coinvolti nel traffico. Identifica­ndo quelli disponibil­i a rientrare nella legalità. Più degli altri, loro conoscono il business, e chi lo gestisce.

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