Ma per fermare l’esodo in mare è decisivo il controllo sulla terra
Per fermare l’esodo in mare occorre agire anche, e soprattutto, sulla terra. Un maggiore impegno dell’Unione europea, tante volte richiesto dal Governo italiano, è senz’altro indispensabile. Ma per centrare l’ambizioso obiettivo annunciato ieri dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk – ovvero chiudere la rotta migratoria del Mediterraneo centrale – la soluzione passa anche per questa via: un controllo effettivo delle coste libiche, e possibilmente anche delle regioni meridionali a ridosso dell’Algeria, da cui transitano migliaia di migranti. Facile a dirsi, meno a farsi. Perché stabilizzare la Libia significa mettere d’accordo le fazioni rivali che si spartiscono il territorio e colpire quel coacervo di clan che si arricchiscono con il business della tratta di esseri umani.
In caso contrario il tratto del Mediterraneo che separa la costa libica da quella italiana e greca rischia di rimanere un grande cimitero sottomarino.
Il neo premier libico Fayez Serraj, che ha firmato ieri sera un’intesa sui migranti con il premier italiano Paolo Gentiloni, lo aveva ripetuto ancora da Bruxelles; «L’ammontare di denaro che l’Europa ha destinato alla Libia è una piccola cifra». Non ha tutti i torti. E se anche arrivassero i 200 milioni di euro destinati alle autorità libiche per rafforzare le sua polizia marittima, sono comunque poca cosa rispetto all’accordo con la Turchia, entrato in vigore nel 2016; sei miliardi di euro suddivisi in due tranche.
La diplomazia italiana aveva più volte sollecitato Bruxelles con una serie di suggerimenti: un appoggio esplicito al governo libico di accordo nazionale; il sostegno all’addestramento della guardia costiera libica e della polizia marittima del ministero degli Interni. Oltre al finanziamento di 200 milioni di euro nel Fondo fiduciario per l’Africa.
Ma l’impressione è che misure di questo tipo, per quanto necessarie, non siano sufficienti. Ed anche se il Governo di Serraj reagisse con una serie di respingimenti in mare – peraltro contrari al diritto internazionale – sulle coste libiche si formerebbe una nuova pentola a pressione pronta ad esplodere .
In verità l’esperto premier libico, su cui la comunità internazionale affida le speranze per stabilizzare la Libia e liberarla dalla presenza dell’Isis, ha preferito non soffermarsi su un aspetto problematico. La Libia che controlla il nuovo Governo di accordo nazionale, insediatosi lo scorso marzo a Tripoli, è solo una parte della Libia:la Tripolitania e poco altro. Ed anche nelle aree in cui Serraj afferma di esercitare la sua autorità le alleanze che ha stretto non appaiono così solide come ci si auspicherebbe.
Serraj è un politico onesto. È riuscito anche a guadagnare un consenso insperato intorno a lui. Ma i risultati non sono stati sufficienti. E più trascorre il tempo, più si indebolisce. Viceversa a rafforzarsi è il “signore della Cirenaica”, il generale Khalifa Haftar, il suo rivale. Il suo “esercito” ormai controlla tutta la fascia costiera che si estende dal confine con l’Egitto fino al terminale petrolifero di al-Sidra, non molto distante da Sirte, dove agiscono le ultime sacche dell’Isis. Sulla costa occidentale Zauia e Zuara sono note per essere le roccaforti degli scafisti. Ma vi sono altri centri minori, che cambiano a seconda del momento. Secondo i politici libici più realisti per sconfiggere l’immigrazione occorrerebbe anche una collaborazione attiva con i clan coinvolti nel traffico. Identificando quelli disponibili a rientrare nella legalità. Più degli altri, loro conoscono il business, e chi lo gestisce.