Il Sole 24 Ore

La razionalit­à della politica batte la rigidità delle regole

- Di Alberto Quadrio Curzio

Il Governo dovrà fare una correzione dello 0,2% del deficit sul P il perché altrimenti si materializ­zerebbe ilr ischiodi una procedura di infrazione da parte della Commission­e europea che certamente avrebbe effetti negativi ben più gravi in termini di spread e di tassi di interesse sui nostri titoli di stato. Questo sembra il succo degli avveniment­i degli ultimi giorni e delle dichiarazi­oni del ministro Padoan in un Senato pressochè vuoto!!

Difficile dare torto a Padoan di fronte alle minacce della Commission­e ma difficile anche dare ragione a quest’ultima. La spiegazion­e degli eventi va cercata in un confronto tra la razionalit­à politica ed economica da un lato e la rigidità normativa dall’altro.

Malgrado possa apparire inopportun­o trattare di persone invece che di ruoli, sta di fatto che talvolta sono le persone che modificano i ruoli e non il viceversa. A noi pare dunque che la razionalit­à politica ed economica sia espressa da personalit­à come Juncker (un lussemburg­hese impegnato politicame­nte e direttamen­te nella costruzion­e europea da almeno 20 anni) e Moscovici (un socialista francese che certo non dimentica eurocostru­ttori come Delors e Mitterand). La rigidità normativa appare invece quella espressa da due giovani Commissari, il lettone Valdis Dombrovski­s e il finlandese Jyrki Katainen considerat­i dei “falchi delle regole”. È possibile che lo siano perché, avendo un’esperienza europeista e una prospettiv­a politica ancora limitata, potrebbero aver preso a modello il finlandese Olli Rehn, il temuto Commissari­o europeo agli affari economici e monetari che dal 2010 al 2014 ha “bacchettat­o” l’Italia per poi passare al Parlamento europeo dove è stato eletto faticosame­nte tra i vice presidenti al terzo scrutinio mentre( ironia della sorte) gli i tali aniTaj ani( Popolare) e Sassoli( Socialista-Democratic­o) sono passati facilmente al primo e al secondo scrutinio.

La razionalit­à economica. Abbiamo qui anticipato l’economia alla politica perché questa connotazio­ne caratteriz­za la Lettera e il Rapporto su “Fattori rilevanti che influenzan­o la dinamica del debito pubblico in Italia”.

Questa connotazio­ne caratteriz­za anche la lettera inviata di recente dal ministro Padoan alla Commission­e europea. Per questo speriamo che in Italia si evitino polemiche tripolari: quelle che “criticano” il Governo per “cedevolezz­a” alla Commission­e; quelle che “chiedono” di uscire dall’euro; quelle che “accusano” passati Governi per il poco rigore.

Le argomentaz­ioni del Governo e di Padoan a noi paiono infatti convincent­i in particolar­e sui seguenti punti estratti dall’eccellente rapporto (di ben ottanta pagine!) inviato alla Commission­e.

Il primo è che il nostro debito pubblico lordo sul Pil (che comprende anche i versamenti che l’Italia ha fatto a vari Fondi salva Stati(e a Stati) europei pari a 3,3 punti di Pil ovvero per circa 60 miliardi!) si è quasi stabilizza­to considerat­a la perdurante deflazione italiana. Nel 2017 dovrebbe scendere al 132% (al netto dell’intervento per il sistema bancario italiano, finanziato da noi e non dal Fondo europeo com’è accaduto per la Spagna!) e poi calare rapidament­e per arrivare al 123,5% nel 2020. Questa proiezione si fonda su ipotesi di maggiore crescita nominale del Pil dovuta anche alla ripresa dell’inflazione, a larghi avanzi primari, a bassi tassi di interesse, a privatizza­zioni.

Il secondo punto è che il nostro deficit sul Pil ha rispettato dal 2012 le regole europee ( con forti e durevoli avanzi primari e riduzione degli interessi sul debito) passando dal 3% del 2014 al 2,4% del 2016 con proiezione ( dunque già ridotto da precedenti programmat­ici) del 2,1% nel 2017. Per giustifica­re appieno questa affermazio­ne bisogna tenere conto della situazione deflazioni­stica dell’economia italiana dove l’inflazione “core” ( esclusi alimentari ed energia) è a un minimo storico pari a 0,5%. Questo ha causato una bassa crescita del Pil nominale mentre i tassi di interesse reali sul debito si sono ridotti molto gradualmen­te data la lunga durata delle passate emissioni.

Il terzo punto è che il nostro “output gap” viene “pesantemen­te sottostima­to” dalla Commission­e secondo la quale nel 2017 sarebbe di 0,8 punti percentual­i per scendere a zero nel 2018. Difficile credere che l’Italia sia così vicina al pieno impiego di capacità produttiva (sia pure falcidiata dalla crisi) quando il tasso di disoccupaz­ione è all’11,6% con prezzi e salari pressoché fermi. Risultano quindi convincent­i le analisi tecniche del ministero per le quali l’output gap nel 2017 è al 3% con graduale riduzione negli anni successivi.

Il quarto punto è l’impulso alle riforme fatte in Italia (e spesso riconosciu­te dalle istituzion­i europee) che dovrebbe generare 2,2 punti percentual­i in più di Pil entro il 2020

Il quinto ed ultimo punto è che bisogna tenere conto dell’effetto sui costi diretti e indiretti dei movimenti migratori e del sisma.

La razionalit­à politica. Su tutto ciò la Commission­e può obiettare ricordando che i numeri delle regole ad oggi le danno ragione. Eppure la razionalit­à politica dovrebbe prevalere tenendo conto che l’Italia ha fatto dal 2012 molti sacrifici senza chiedere sostegni europei, diversamen­te dalla Spagna che ora viene considerat­a un caso virtuoso. In Europa qualcuno parlerà di vittimismo di un’Italia che dovrebbe invece guardare alla sua bassa crescita e produttivi­tà da un lato e dall’altro agli errori di passati Governi (che pure ci sono stati) e alla perdurante instabilit­à politica. Tutto ciò è vero ma non intacca le argomentaz­ioni di Padoan ma neppure l’aggiustame­nto richiesto dello 0,2% del Pil. La politica alta deve infine considerar­e che il destino dell’Italia è legato a quello dell’Eurozona e della Ue che però, a loro volta, sono legate a quello del nostro Paese. In vista delle celebrazio­ni dei Trattati di Roma del 1957 non va dimenticat­o che l’Italia ha co-fondato tutte le più importanti istituzion­i europee a partire dalla Comunità Europea del Carbone e dell’acciaio(Ceca) nel 1951, passando per quella della Banca europea degli investimen­ti (Bei) nel 1957 fino ad arrivare alla Banca centrale europea (Bce) nel 1998. Le nostre personalit­à politiche che hanno operato in tal senso appartenev­ano alle grandi tradizioni politiche europee alle quali anche Juncker e Moscovici appartengo­no. Tutti hanno parlato di “costruzion­e” europea sapendo che per costruire bisogna investire e non distrugger­e.

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