La razionalità della politica batte la rigidità delle regole
Il Governo dovrà fare una correzione dello 0,2% del deficit sul P il perché altrimenti si materializzerebbe ilr ischiodi una procedura di infrazione da parte della Commissione europea che certamente avrebbe effetti negativi ben più gravi in termini di spread e di tassi di interesse sui nostri titoli di stato. Questo sembra il succo degli avvenimenti degli ultimi giorni e delle dichiarazioni del ministro Padoan in un Senato pressochè vuoto!!
Difficile dare torto a Padoan di fronte alle minacce della Commissione ma difficile anche dare ragione a quest’ultima. La spiegazione degli eventi va cercata in un confronto tra la razionalità politica ed economica da un lato e la rigidità normativa dall’altro.
Malgrado possa apparire inopportuno trattare di persone invece che di ruoli, sta di fatto che talvolta sono le persone che modificano i ruoli e non il viceversa. A noi pare dunque che la razionalità politica ed economica sia espressa da personalità come Juncker (un lussemburghese impegnato politicamente e direttamente nella costruzione europea da almeno 20 anni) e Moscovici (un socialista francese che certo non dimentica eurocostruttori come Delors e Mitterand). La rigidità normativa appare invece quella espressa da due giovani Commissari, il lettone Valdis Dombrovskis e il finlandese Jyrki Katainen considerati dei “falchi delle regole”. È possibile che lo siano perché, avendo un’esperienza europeista e una prospettiva politica ancora limitata, potrebbero aver preso a modello il finlandese Olli Rehn, il temuto Commissario europeo agli affari economici e monetari che dal 2010 al 2014 ha “bacchettato” l’Italia per poi passare al Parlamento europeo dove è stato eletto faticosamente tra i vice presidenti al terzo scrutinio mentre( ironia della sorte) gli i tali aniTaj ani( Popolare) e Sassoli( Socialista-Democratico) sono passati facilmente al primo e al secondo scrutinio.
La razionalità economica. Abbiamo qui anticipato l’economia alla politica perché questa connotazione caratterizza la Lettera e il Rapporto su “Fattori rilevanti che influenzano la dinamica del debito pubblico in Italia”.
Questa connotazione caratterizza anche la lettera inviata di recente dal ministro Padoan alla Commissione europea. Per questo speriamo che in Italia si evitino polemiche tripolari: quelle che “criticano” il Governo per “cedevolezza” alla Commissione; quelle che “chiedono” di uscire dall’euro; quelle che “accusano” passati Governi per il poco rigore.
Le argomentazioni del Governo e di Padoan a noi paiono infatti convincenti in particolare sui seguenti punti estratti dall’eccellente rapporto (di ben ottanta pagine!) inviato alla Commissione.
Il primo è che il nostro debito pubblico lordo sul Pil (che comprende anche i versamenti che l’Italia ha fatto a vari Fondi salva Stati(e a Stati) europei pari a 3,3 punti di Pil ovvero per circa 60 miliardi!) si è quasi stabilizzato considerata la perdurante deflazione italiana. Nel 2017 dovrebbe scendere al 132% (al netto dell’intervento per il sistema bancario italiano, finanziato da noi e non dal Fondo europeo com’è accaduto per la Spagna!) e poi calare rapidamente per arrivare al 123,5% nel 2020. Questa proiezione si fonda su ipotesi di maggiore crescita nominale del Pil dovuta anche alla ripresa dell’inflazione, a larghi avanzi primari, a bassi tassi di interesse, a privatizzazioni.
Il secondo punto è che il nostro deficit sul Pil ha rispettato dal 2012 le regole europee ( con forti e durevoli avanzi primari e riduzione degli interessi sul debito) passando dal 3% del 2014 al 2,4% del 2016 con proiezione ( dunque già ridotto da precedenti programmatici) del 2,1% nel 2017. Per giustificare appieno questa affermazione bisogna tenere conto della situazione deflazionistica dell’economia italiana dove l’inflazione “core” ( esclusi alimentari ed energia) è a un minimo storico pari a 0,5%. Questo ha causato una bassa crescita del Pil nominale mentre i tassi di interesse reali sul debito si sono ridotti molto gradualmente data la lunga durata delle passate emissioni.
Il terzo punto è che il nostro “output gap” viene “pesantemente sottostimato” dalla Commissione secondo la quale nel 2017 sarebbe di 0,8 punti percentuali per scendere a zero nel 2018. Difficile credere che l’Italia sia così vicina al pieno impiego di capacità produttiva (sia pure falcidiata dalla crisi) quando il tasso di disoccupazione è all’11,6% con prezzi e salari pressoché fermi. Risultano quindi convincenti le analisi tecniche del ministero per le quali l’output gap nel 2017 è al 3% con graduale riduzione negli anni successivi.
Il quarto punto è l’impulso alle riforme fatte in Italia (e spesso riconosciute dalle istituzioni europee) che dovrebbe generare 2,2 punti percentuali in più di Pil entro il 2020
Il quinto ed ultimo punto è che bisogna tenere conto dell’effetto sui costi diretti e indiretti dei movimenti migratori e del sisma.
La razionalità politica. Su tutto ciò la Commissione può obiettare ricordando che i numeri delle regole ad oggi le danno ragione. Eppure la razionalità politica dovrebbe prevalere tenendo conto che l’Italia ha fatto dal 2012 molti sacrifici senza chiedere sostegni europei, diversamente dalla Spagna che ora viene considerata un caso virtuoso. In Europa qualcuno parlerà di vittimismo di un’Italia che dovrebbe invece guardare alla sua bassa crescita e produttività da un lato e dall’altro agli errori di passati Governi (che pure ci sono stati) e alla perdurante instabilità politica. Tutto ciò è vero ma non intacca le argomentazioni di Padoan ma neppure l’aggiustamento richiesto dello 0,2% del Pil. La politica alta deve infine considerare che il destino dell’Italia è legato a quello dell’Eurozona e della Ue che però, a loro volta, sono legate a quello del nostro Paese. In vista delle celebrazioni dei Trattati di Roma del 1957 non va dimenticato che l’Italia ha co-fondato tutte le più importanti istituzioni europee a partire dalla Comunità Europea del Carbone e dell’acciaio(Ceca) nel 1951, passando per quella della Banca europea degli investimenti (Bei) nel 1957 fino ad arrivare alla Banca centrale europea (Bce) nel 1998. Le nostre personalità politiche che hanno operato in tal senso appartenevano alle grandi tradizioni politiche europee alle quali anche Juncker e Moscovici appartengono. Tutti hanno parlato di “costruzione” europea sapendo che per costruire bisogna investire e non distruggere.