Trump: sanzioni per l’Iran, revisione su Cuba
La Casa Bianca r isponde a un test missilistico varando restr izioni contro 13 persone e 12 entità Cambio di tono con Russia e Israele: ritiro dalla Crimea e stop agli insediamenti
Nuove svolte nella politica estera della Casa Bianca: Trump ha annunciato sanzioni contro l’Iran dopo l’ultimo test missilistico e una revisione delle aperture di Obama a Cuba; duri e imprevisti messaggi, inoltre, per Russia e Israele.
pDonald Trump si è esibito nell’ennesima piroetta inattesa: all’improvviso si è allineato con la tradizionale continuità per alcune linee guida della politica estera americana. Ha imposto sanzioni contro l’Iran per il test missilistico dell’altro giorno, non dissimili da quelle che impose l’anno scorso Barack Obama. Ha inviato un messaggio minaccioso alla Russia: la sanzioni contro Mosca non saranno eliminate fino a quando non ci sarà un ritiro dalla Crimea. A questo aggiungiamo il messaggio duro e improvviso contro Israele: basta insediamenti mettono a rischio il processo di pace. Quale processo di pace? Quello per la creazione di due stati su cui Trump aveva espresso seri dubbi? Si direbbe proprio di sì. E un messaggio così in contrasto con le sue posizioni assolutamente a favore di Israele, al punto che ha inviato un ambasciatore che vuole spostare la rappresentanza diplomatica a Gerusalemme, non se lo aspettava nessuno. Infine ieri ha anche detto di voler rivedere alcuni degli accordi siglati da Obama con Cuba, unica posizione questa, in rotta di collisione con la tradizionale continuità della politica estera americana al di là delle amministrazioni e dei colori delle amministrazioni che si succedono alla Casa Bianca.
Che cosa è successo? Cosa può aver spinto Trump ad allontanarsi dalla linea provocatoria su tutto? Che fosse provocatoria non ci sono dubbi, bastava il tono dei suoi tweet per capire che ci si trovava con un “Agente provocatore alla Casa Bianca”. È stato proprio questo il termine che ha usato l’Economist in copertina del numero di questa settimana: si vede Trump con il suo sguardo minaccioso pronto a lanciare una bottiglia Molotov.
Non ci sono per ora indiscrezioni credibili per spiegare cosa sia successo all’improvviso. Prendiamo la Russia, Trump ha sempre usato toni non solo amichevoli ma addirittura di apertura nei confronti di Vladimir Putin. Si era capito che dell’Ucraina non gliene importava nulla. Che era pronto a sacrificare i principi che tutelano i confini internazionali in nome di un accordo con la Russia: «Basta, credo che sia arrivato il momento del dialogo - diceva Trump anche subito dopo il giuramento - non sareste forse tutti molto contenti se andassimo d’accordo con la Russia se potessimo combattere insieme il terrorismo»? Poi, giorni fa Mosca ha alzato il tiro nel Donbass, la provincia orientale dell’Ucraina contesa
L’IMPRONTA DI TILLERSON? Il nuovo segretario di Stato, vicino al Pentagono, potrebbe aver impresso una svolta sui dossier chiave rispetto al gruppo di Bannon
dai russi. Perché Putin doveva mettere in atto una sua provocazione? Forse aveva capito che le cose potevano cambiare? Per ora ci si muove a tentoni.
La tesi più accreditata è che dopo il giuramento di Rex Tillerson alla guida del dipartimento di Stato, alcuni dossier chiave per la gestione della politica estera americana sono passati dai quattro fedelissimi, Stephen Bannon, Maryanne Conway, Mike Flynn e Sean Spicer, al tavolo di Tillerson, uomo quadrato, con esperienza solida dopo una carriera passata alla Exxon. Tillerson è sicuramente alleato del segretario al Pentagono, il generale Mattis, considerato di nuovo uomo di primissima qualità, prudente e con le idee chiarissime su come perseguire obiettivi per la politica estera americana e favorevole a certe linee centrali di continuità, per la Nato ad esempio.
È lecito pensare che il cambiamento di rotta su Israele venga anch’esso su influenza del dipartimento di Stato, l’obiettivo di creare due stati che potessero convivere in pace nella regione risale addirittura al 1974 da un punto di vista concettuale. Ma è stato alla Conferenza di Madrid del 1991 e poi con gli accordi di Oslo del 1993 che il percorso per la creazione di due stati è diventato il punto di riferimento centrale di tutte le amministrazioni americane. Ma non per Trump, soltanto il 19 gennaio scorso ha detto che la soluzione a due stati non era necessariamente la migliore e non aveva sollevato obiezione alcuna alla notizia di nuovi insediamenti israeliani. Infatti aveva criticato aspramente l’astensione dell’amministrazione Obama su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ribadiva l’importanza di fermare gli insediamenti israeliani.
Dovendola prendere per valore di facciata, questo cambiamento di Trump su alcuni temi chiave non può che essere considerato positivo, è in sintonia con Paesi alleati e rappresenta una svolta rassicurante dopo i litigi con il Messico e con l’Australia e dopo il messaggio durissimo contro la Germania anche sul piano della retorica (Sfruttano gli Stati Uniti d’America!!, diceva irritato). Ma come abbiamo visto da Trump c’è da aspettarsi di tutto, magari cambierà di nuovo. Di certo l’auspicio è che l’amministrazione con le nuove nomine in arrivo possa stabilizzarsi su un percorso meno da “agente provocatore” e più da statista.