Il Sole 24 Ore

Trump: sanzioni per l’Iran, revisione su Cuba

La Casa Bianca r isponde a un test missilisti­co varando restr izioni contro 13 persone e 12 entità Cambio di tono con Russia e Israele: ritiro dalla Crimea e stop agli insediamen­ti

- Roberto Bongiorni

Nuove svolte nella politica estera della Casa Bianca: Trump ha annunciato sanzioni contro l’Iran dopo l’ultimo test missilisti­co e una revisione delle aperture di Obama a Cuba; duri e imprevisti messaggi, inoltre, per Russia e Israele.

pDonald Trump si è esibito nell’ennesima piroetta inattesa: all’improvviso si è allineato con la tradiziona­le continuità per alcune linee guida della politica estera americana. Ha imposto sanzioni contro l’Iran per il test missilisti­co dell’altro giorno, non dissimili da quelle che impose l’anno scorso Barack Obama. Ha inviato un messaggio minaccioso alla Russia: la sanzioni contro Mosca non saranno eliminate fino a quando non ci sarà un ritiro dalla Crimea. A questo aggiungiam­o il messaggio duro e improvviso contro Israele: basta insediamen­ti mettono a rischio il processo di pace. Quale processo di pace? Quello per la creazione di due stati su cui Trump aveva espresso seri dubbi? Si direbbe proprio di sì. E un messaggio così in contrasto con le sue posizioni assolutame­nte a favore di Israele, al punto che ha inviato un ambasciato­re che vuole spostare la rappresent­anza diplomatic­a a Gerusalemm­e, non se lo aspettava nessuno. Infine ieri ha anche detto di voler rivedere alcuni degli accordi siglati da Obama con Cuba, unica posizione questa, in rotta di collisione con la tradiziona­le continuità della politica estera americana al di là delle amministra­zioni e dei colori delle amministra­zioni che si succedono alla Casa Bianca.

Che cosa è successo? Cosa può aver spinto Trump ad allontanar­si dalla linea provocator­ia su tutto? Che fosse provocator­ia non ci sono dubbi, bastava il tono dei suoi tweet per capire che ci si trovava con un “Agente provocator­e alla Casa Bianca”. È stato proprio questo il termine che ha usato l’Economist in copertina del numero di questa settimana: si vede Trump con il suo sguardo minaccioso pronto a lanciare una bottiglia Molotov.

Non ci sono per ora indiscrezi­oni credibili per spiegare cosa sia successo all’improvviso. Prendiamo la Russia, Trump ha sempre usato toni non solo amichevoli ma addirittur­a di apertura nei confronti di Vladimir Putin. Si era capito che dell’Ucraina non gliene importava nulla. Che era pronto a sacrificar­e i principi che tutelano i confini internazio­nali in nome di un accordo con la Russia: «Basta, credo che sia arrivato il momento del dialogo - diceva Trump anche subito dopo il giuramento - non sareste forse tutti molto contenti se andassimo d’accordo con la Russia se potessimo combattere insieme il terrorismo»? Poi, giorni fa Mosca ha alzato il tiro nel Donbass, la provincia orientale dell’Ucraina contesa

L’IMPRONTA DI TILLERSON? Il nuovo segretario di Stato, vicino al Pentagono, potrebbe aver impresso una svolta sui dossier chiave rispetto al gruppo di Bannon

dai russi. Perché Putin doveva mettere in atto una sua provocazio­ne? Forse aveva capito che le cose potevano cambiare? Per ora ci si muove a tentoni.

La tesi più accreditat­a è che dopo il giuramento di Rex Tillerson alla guida del dipartimen­to di Stato, alcuni dossier chiave per la gestione della politica estera americana sono passati dai quattro fedelissim­i, Stephen Bannon, Maryanne Conway, Mike Flynn e Sean Spicer, al tavolo di Tillerson, uomo quadrato, con esperienza solida dopo una carriera passata alla Exxon. Tillerson è sicurament­e alleato del segretario al Pentagono, il generale Mattis, considerat­o di nuovo uomo di primissima qualità, prudente e con le idee chiarissim­e su come perseguire obiettivi per la politica estera americana e favorevole a certe linee centrali di continuità, per la Nato ad esempio.

È lecito pensare che il cambiament­o di rotta su Israele venga anch’esso su influenza del dipartimen­to di Stato, l’obiettivo di creare due stati che potessero convivere in pace nella regione risale addirittur­a al 1974 da un punto di vista concettual­e. Ma è stato alla Conferenza di Madrid del 1991 e poi con gli accordi di Oslo del 1993 che il percorso per la creazione di due stati è diventato il punto di riferiment­o centrale di tutte le amministra­zioni americane. Ma non per Trump, soltanto il 19 gennaio scorso ha detto che la soluzione a due stati non era necessaria­mente la migliore e non aveva sollevato obiezione alcuna alla notizia di nuovi insediamen­ti israeliani. Infatti aveva criticato aspramente l’astensione dell’amministra­zione Obama su una risoluzion­e del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ribadiva l’importanza di fermare gli insediamen­ti israeliani.

Dovendola prendere per valore di facciata, questo cambiament­o di Trump su alcuni temi chiave non può che essere considerat­o positivo, è in sintonia con Paesi alleati e rappresent­a una svolta rassicuran­te dopo i litigi con il Messico e con l’Australia e dopo il messaggio durissimo contro la Germania anche sul piano della retorica (Sfruttano gli Stati Uniti d’America!!, diceva irritato). Ma come abbiamo visto da Trump c’è da aspettarsi di tutto, magari cambierà di nuovo. Di certo l’auspicio è che l’amministra­zione con le nuove nomine in arrivo possa stabilizza­rsi su un percorso meno da “agente provocator­e” e più da statista.

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Ritorno al passato. La bandiera Usa calpestata a Teheran (foto del 2015)

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