L’era Trump e la qualità del lavoro negli Stati Uniti
Non è il mercato del lavoro il problema degli Stati Uniti. La disoccupazione resta bassissima, le retribuzioni medie orarie aumentano del 2,5% annuo e, malgrado un’inattesa frenata a dicembre, sono in accelerazione (di 0,1 punti percentuali ogni mese da fine 2014, come tendenza).
Resta però alto il numero delle persone che non riescono a trovare il desiderato lavoro a tempo pieno, e resta basso e soprattutto stabile il tasso di partecipazione al mercato del lavoro. Gli analisti di mercato non hanno quindi considerato i dati di ieri particolarmente esaltanti, anche se migliori delle attese, e non è un giudizio sbagliato. Come non è un errore continuare ad attendersi un proseguimento della stretta sui tassi da parte della Federal reserve: l’inflazione è in risalita e questi dati, nei modelli usati dai banchieri centrali Usa, sono coerenti con un’ulteriore accelerazione dei prezzi.
Il rialzo del costo del credito sarà in realtà lento: «La Banca centrale Usa - spiega per esempio in una nota sui dati di ieri Keith Wade di Schroders - si tratterrà dall’alzare i tassi fino a giugno» e il ritmo del rialzo non potrà «aumentare fino alla fine dell’anno e inizio del 2018, quando la politica fiscale comincerà a manifestare i suoi effetti». Il calo del cambio effettivo del dollaro, sceso del 4% da inizio gennaio e tornato ai livelli di metà novembre, lascia pensare che gli investitori abbiano prudentemente riallineato le loro aspettative su crescita e costo del credito, un po’ esagerate a fine 2016.
I numeri sul mercato del lavoro - quelli di ieri insieme a quelli degli ultimi mesi - sono un po’ meno coerenti con il quadro su cui il nuovo presidente Donald Trump sta costruendo - o, meglio, sta giustificando - la sua politica economica. È vero che gli Usa hanno bisogno di infrastrutture - almeno di ristrutturarle - e che gli investimenti in questo campo, peraltro promessi da tempo, danno lavoro a persone con minori competenze (ma un muratore non ne è certo privo, anzi...) e con maggiori difficoltà. È facile che il maxi piano abbia risultati rilevanti sul fronte dell’occupazione, e se è vero che il premier giapponese Shinzo Abe - nel tentativo di esportare tecnologie ad alta qualità nelle intrastrutture e di compiacere un alleato ora diventato “difficile” - vuole varare un programma da 150 miliardi di dollari di investimenti negli Usa in grado di creare 700mila nuovi posti di lavoro americani, è possibile che la situazione del mercato del lavoro possa migliorare ancora, a favore quantomeno dei lavoratori che hanno sofferto di più dalla crisi del settore delle costruzioni.
Più difficile è giustificare il vento protezionista che anima molte promesse e molte iniziative della Casa Bianca. Le restrizioni al commercio - ha spiegato John Cochrane dell’Università di Chicago nel suo blog The Grumpy Economist - trasferiscono lavoro dai settori orientati all’esportazione o comunque finanziati dalla domanda di investimenti dall’estero a settori “vecchi”, in modo inefficiente perché tutti i prodotti diventano più cari. È sicuramente vero che la moltiplicazione (per quattro...) dell’offerta di lavoro a cui si è assistito con la globalizzazione ha pesato, e molto, è anche vero che non si è fatto molto (e in
CONTRONDICAZIONI Il protezionismo favorirà all’inizio l'occupazione nei settori tradizionali e meno innovativi
venti anni si “prepara” una nuova generazione di lavoratori) per formare il capitale umano necessario ai nuovi settori. La scuola americana, soprattutto i licei, è in pessime condizioni, e le politiche di Trump, orientate più alla religione che alla scienza e alla tecnologia non sembrano andare nella direzione giusta.
Le iniziative del nuovo presidente sembrano in realtà più coerenti con una visione radicalmente nuova della politica estera che alle necessità del mondo del lavoro. Più muscolare, innanzitutto: le sue iniziative sembrano puntare ad aumentare ulteriormente il potere contrattuale degli Stati Uniti (si pensi alla sua preferenza per gli accordi bilaterali). Più orientata, inoltre, ai vantaggi a breve termine, tipiche di un businessman di un settore non certo avanzato: il soft power degli Usa, che permetteva risultati nel lungo o lunghissimo periodo, sembra in forti difficoltà. Più capaci di captare, infine, quella parte di popolazione che giustifica con argomenti economici quello che è in realtà un contraccolpo tutto culturale alla nuova società aperta del XXI secolo.