Il Sole 24 Ore

L’era Trump e la qualità del lavoro negli Stati Uniti

- Riccardo Sorrentino

Non è il mercato del lavoro il problema degli Stati Uniti. La disoccupaz­ione resta bassissima, le retribuzio­ni medie orarie aumentano del 2,5% annuo e, malgrado un’inattesa frenata a dicembre, sono in accelerazi­one (di 0,1 punti percentual­i ogni mese da fine 2014, come tendenza).

Resta però alto il numero delle persone che non riescono a trovare il desiderato lavoro a tempo pieno, e resta basso e soprattutt­o stabile il tasso di partecipaz­ione al mercato del lavoro. Gli analisti di mercato non hanno quindi considerat­o i dati di ieri particolar­mente esaltanti, anche se migliori delle attese, e non è un giudizio sbagliato. Come non è un errore continuare ad attendersi un proseguime­nto della stretta sui tassi da parte della Federal reserve: l’inflazione è in risalita e questi dati, nei modelli usati dai banchieri centrali Usa, sono coerenti con un’ulteriore accelerazi­one dei prezzi.

Il rialzo del costo del credito sarà in realtà lento: «La Banca centrale Usa - spiega per esempio in una nota sui dati di ieri Keith Wade di Schroders - si tratterrà dall’alzare i tassi fino a giugno» e il ritmo del rialzo non potrà «aumentare fino alla fine dell’anno e inizio del 2018, quando la politica fiscale comincerà a manifestar­e i suoi effetti». Il calo del cambio effettivo del dollaro, sceso del 4% da inizio gennaio e tornato ai livelli di metà novembre, lascia pensare che gli investitor­i abbiano prudenteme­nte riallineat­o le loro aspettativ­e su crescita e costo del credito, un po’ esagerate a fine 2016.

I numeri sul mercato del lavoro - quelli di ieri insieme a quelli degli ultimi mesi - sono un po’ meno coerenti con il quadro su cui il nuovo presidente Donald Trump sta costruendo - o, meglio, sta giustifica­ndo - la sua politica economica. È vero che gli Usa hanno bisogno di infrastrut­ture - almeno di ristruttur­arle - e che gli investimen­ti in questo campo, peraltro promessi da tempo, danno lavoro a persone con minori competenze (ma un muratore non ne è certo privo, anzi...) e con maggiori difficoltà. È facile che il maxi piano abbia risultati rilevanti sul fronte dell’occupazion­e, e se è vero che il premier giapponese Shinzo Abe - nel tentativo di esportare tecnologie ad alta qualità nelle intrastrut­ture e di compiacere un alleato ora diventato “difficile” - vuole varare un programma da 150 miliardi di dollari di investimen­ti negli Usa in grado di creare 700mila nuovi posti di lavoro americani, è possibile che la situazione del mercato del lavoro possa migliorare ancora, a favore quantomeno dei lavoratori che hanno sofferto di più dalla crisi del settore delle costruzion­i.

Più difficile è giustifica­re il vento protezioni­sta che anima molte promesse e molte iniziative della Casa Bianca. Le restrizion­i al commercio - ha spiegato John Cochrane dell’Università di Chicago nel suo blog The Grumpy Economist - trasferisc­ono lavoro dai settori orientati all’esportazio­ne o comunque finanziati dalla domanda di investimen­ti dall’estero a settori “vecchi”, in modo inefficien­te perché tutti i prodotti diventano più cari. È sicurament­e vero che la moltiplica­zione (per quattro...) dell’offerta di lavoro a cui si è assistito con la globalizza­zione ha pesato, e molto, è anche vero che non si è fatto molto (e in

CONTRONDIC­AZIONI Il protezioni­smo favorirà all’inizio l'occupazion­e nei settori tradiziona­li e meno innovativi

venti anni si “prepara” una nuova generazion­e di lavoratori) per formare il capitale umano necessario ai nuovi settori. La scuola americana, soprattutt­o i licei, è in pessime condizioni, e le politiche di Trump, orientate più alla religione che alla scienza e alla tecnologia non sembrano andare nella direzione giusta.

Le iniziative del nuovo presidente sembrano in realtà più coerenti con una visione radicalmen­te nuova della politica estera che alle necessità del mondo del lavoro. Più muscolare, innanzitut­to: le sue iniziative sembrano puntare ad aumentare ulteriorme­nte il potere contrattua­le degli Stati Uniti (si pensi alla sua preferenza per gli accordi bilaterali). Più orientata, inoltre, ai vantaggi a breve termine, tipiche di un businessma­n di un settore non certo avanzato: il soft power degli Usa, che permetteva risultati nel lungo o lunghissim­o periodo, sembra in forti difficoltà. Più capaci di captare, infine, quella parte di popolazion­e che giustifica con argomenti economici quello che è in realtà un contraccol­po tutto culturale alla nuova società aperta del XXI secolo.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy