Il 2017 dei mercati, un anno condizionato dalla politica
L’andamento di Borse, titoli di Stato e valute dipenderà dagli sviluppi della «rivoluzione» Trump e dalle elezioni nei vari Paesi europei Se nel Vecchio continente è a rischio il sistema euro, il protezionismo mina la crescita mondiale
Adispetto di dati macroeconomici incoraggianti, un po’ in tutto il mondo, l’andamento dei mercati nel corso di quest’anno sarà condizionato quasi esclusivamente dagli eventi politici. Se negli Stati Uniti, la corsa di Wall Street (con il corollario di un dollaro forte e tassi d’interesse in rialzo) è stata propiziata dall’entusiasmo per la «rivoluzione» promessa da Donald Trump, i successivi sviluppi dipenderanno da come quella presunta rivoluzione verrà implementata e, dopo un rialzo del 10% dell’S&P in 3 mesi, da una più attenta valutazione delle possibili conseguenze negative della trumponomic. Le sorti delle borse europee, e in particolare dei titoli di Stato, sono invece legate agli esiti delle elezioni politiche nei principali paesi dell’area valutaria: Olanda, Francia Germania e, probabilmente, Italia. L’affermazione dei movimenti anti euro potrebbe offrire la spallata finale a una unione monetaria (se non addirittura a quella politica), con conseguenze pesanti specie sui paesi più deboli come l’Italia.
Per questi motivi, fare previsioni sull’andamento dei mercati è arte che supera le capacità umane e la sola ragionevole prospettiva è l’aumento del rischio, tanto più elevato con il crescere della valutazioni azionarie. La più immediata fonte d’incertezza resta tuttavia la politica del nuovo presidente americano, il quale, fin dai primi atti, sta dimostrando di voler attuare, e nel più ruvido dei modi, tutte le promesse fatte in campagna elettorale. La più pericolosa è la volontà d’imporre tariffe doganali sulle merci importate e stupisce alquanto l’accon- discendenza di alcune società industriali statunitensi, General Electric o Boeing per esempio, per una politica protezionistica che genererebbe comparabili ritorsioni da parte degli altri Paesi. Come pensa una società essenzialmente esportatrice come Boeing di vendere aerei nel resto del mondo, se la reciproca imposizioni di tariffe doganali li renderebbe più cari del 20%? Ma il guaio è che la limitazione degli scambi commerciali non è un gioco a somma zero, poiché, come s’era visto con la Smoot-Hawley Tariff Act del 1930, la guerra commerciale che scatenò finì per aggravare le conseguenze della Grande Depressione.
Indipendentemente dalla voce dura di Trump e dall’azione di una banca centrale, seppur addomesticata, la politica del nuovo presidente è, se attuata nei termini che si prospettano, inflazionistica, tale da far crescere i rendimenti dei bond e irrobustire ulteriormente il dollaro. Come scrive Nouriel Roubini, poco importa aver salvato mille posti di lavoro nell’Indiana (Carrier) promettendo drastici tagli alle tasse, quando l’apprezzamento del dollaro ne «può distruggere, con il tempo, almeno 400mila».
Roubini è critico sull’intero impianto della trumponomic e qualcuno può sostenere che la sua visione è condizionata dall’essere un liberale e un liberista (cosa che di questi tempi appare a molti peggiore del comunismo) e per essere stato consigliere economico dell’amministrazione Clinton. E allora citiamo Ray Dalio che è stato un fautore di Trump della prima ora e che, accanto al promesso taglio delle tasse e alla spinta per investimenti, ha pure apprezzato la volontà del neo presidente di riportare in patria capitali e pezzi della produzione industriale. «Bisognerà vedere - aveva detto a dicembre - se Trump intende essere aggressivo e ragionevole oppure aggressivo e avventato». Le ultime decisioni del nuovo presidente e il tono delle sue parole fanno propendere per il secondo caso e lo stesso grande gestore s’è dissociato dall’«avventatezza» di Trump.
Di certo la sua gratuita aggressività mostrata pure verso storici alleati degli Stati Uniti (Canada, Australia e i paesi euro) lascia poche speranze alla possibilità di aspettarsi rapporti, sia pure aggressivi, ma ragionevoli con i principali partner Usa. L’attacco alla Germania e a un euro manipolato (definito da Navarro Marco tedesco)può trovare simpatia anche presso gli europei: se non fosse che l’euro è debole per la politica della Bce, che assai poco piace a Berlino, e che dalla forza commerciale della Germania dipende pure una bella fetta dell’industria manifatturiera italiana.