Offerte dall’estero per Cinti calzature
p «Sarei contento fosse un investitore italiano a rilevare l’azienda, ma non ci sono manifestazioni di interesse». Giuseppe Cinti, figlio del fondatore della catena di calzature bolognese, ha aperto da poche settimane le porte della sede di Argelato ai due commissari governativi che gestiranno l’amministrazione straordinaria con il compito di cedere, entro fine anno, il 100% del gruppo al miglior acquirente. Un cavaliere bianco che si faccia carico dei 240 dipendenti, degli asset – una settantina di negozi tra cui i 52 monomarca, gli outlet e gli shop della nuova linea low cost “Blocco 31” tra Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio e Sicilia – ma anche di 56 milioni di debiti, di cui 37 verso l’erario, a fronte di 21 milioni di circolante e di un fatturato attorno ai 30 milioni di euro. Manifestazioni di interesse sono arrivate invece dall’Asia, come sempre quando in gioco ci sono marchi made in Italy in affanno finanziario ma con buone chance di sviluppo sui mercati internazionali.
«Già il fatto che sia stata accettata dal Mise la nostra richiesta del luglio scorso di accedere all’amministrazione straordinaria per grandi imprese (tra l’altro la prima in cui si è testata la norma Calenda sulla selezione di commissari autocandidatisi, ndr ) conferma le buone prospettive di rilancio», sottolinea Cinti. Dal 2015 il gruppo ha chiuso circa 30 negozi su 100, in assoluta pax sindacale, «e questo spiega il calo di fatturato – aggiunge - mentre a perimetro costante non abbiamo perso ricavi e ora ci troviamo con una struttura commerciale equilibrata. Per quest’anno invece, grazie alle tutele dell’amministrazione straordinaria, abbiamo messo a budget una crescita del 7-8%. I problemi sono iniziati per alcune pessime operazioni sui derivati con Unicredit, sulle quali c’è una vertenza in corso, che hanno finito per bloccarci anche 18 milioni di affidamenti, di fatto convertiti da noi in debiti tributari per avere ossigeno operativo».
Niente credito, poco patrimonio e tre anni di margini in rosso hanno portato alla scelta di vendere l’azienda di famiglia, «per non distruggere decenni di lavoro – spiega l’ormai ex presidente - e centinaia di posti, nonché una rete di negozi in top location del Paese e un marchio che ha grandi chance di sviluppo. Perché il retail calzaturiero italiano è molto frammentato e i pochi grandi gruppi presenti (come Pittarosso o Scarpe&Scarpe) operano nella fascia bassa del mercato, mentre noi puntiamo su calzature fast fashion di qualità al giusto prezzo, disegnate da noi e per oltre il 70% fatte in Italia da una ventina di fornitori».
Se in Italia ci sono margini di crescita, l’estero è tutto da esplorare. «In Germania stiamo vendendo bene grazie alla partnership con Zalando; in Medio Oriente abbiamo appena firmato un contratto con il primo gruppo calzaturiero locale per aprire una ventina di concept store Blocco 31, il brand per i teenager creato tre anni fa, partendo da Dubai e Abu Dhabi. Non abbiamo le forze per aprire direttamente oltreconfine – conclude Cinti - e cerchiamo partner lungimiranti con cui programmare 10-15 aperture con la formula del franchising in conto vendita».