La trazione elettorale e le decisioni da prendere
Considerare che questo è un anno europeo a trazione elettorale e mai come stavolta foriero di tensioni. Tenere presente il pressing a tutto campo della nuova coppia Trump-May, unita sulla frontiera attrattiva, e dirompente, del “giù le tasse” ma dissonante sulla globalizzazione: di là “America first” è una porta che tende a chiudersi, di qua “Gb first” è il tentativo, dopo Brexit, per fare del Regno Unito una finestra sul mondo.
Infine, ricordarsi di essere la seconda potenza manifatturiera dell’Europa alle spalle della Germania ma insieme il Paese col terzo debito pubblico del pianeta. Fatto che può essere vissuto a volte come una felice contraddizione ma che alla lunga dovrebbe alimentare qualche brivido. Stare in barca con un elefante, per quanto apparentemente mansueto, non è mai agevole: basta un niente e si finisce in acqua. Poi sì, c’è sempre la ciambella della Banca centrale europea, ma farci conto all’infinito – così come per anni non abbiamo approfittato della stagione dei tassi bassi dopo l’avvento dell’euro – è un calcolo miope.
Dire che l’Italia, nella sua stabile instabilità politica, è in una posizione scomoda è un’ovvietà. Quando si va sul mercato con aste di titoli pubblici per 450 miliardi l’anno e quando si pagano interessi sul debito per 70 miliardi l’anno la marcia non può essere mai trionfale e ogni giorno ha la sua pena. Oggi può essere un dato sulla congiuntura, domani un “giudizio” di un’agenzia di rating, dopodomani la dichiarazione agrodolce di un leader europeo, tra una settimana un verdetto della Commissione a Bruxelles nella lunga corsa a tappe della sessione di bilancio continentale.
Insomma i mercati, per quanto imperfetti, questa storia del vertiginoso debito italiano, all’altezza di circa il 133% del Pil, ce l’hanno sempre ben piazzata davanti: e sarà pure un metodo “sgarbato”, come ha detto il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, ma l’andirivieni dello spread funziona da termometro.
I sessant’anni del Trattato di Roma del 1957, uno degli atti fondativi dell’Europa che viviamo, saranno a marzo celebrati nella Capitale. Ma il 2017 non è un anno qualunque: si vota in Olanda, in Francia (dove Marine Le Pen è all’assalto dei muri crepati del fortino europeo), nella Germania in cui la stessa cancelliera Angela Merkel mette in gioco la sua lunga leadership perché la vittoria non è in fondo così scontata come si poteva pensare fino a qualche mese fa. Le campagne elettorali, com’è poi naturale, semplificano i problemi ma non li risolvono certo in attesa del voto. E mai come questa volta la ricerca del consenso è stata e rimane così affannosa: lo stesso fronte aperto da Angela Merkel sull’Europa a due velocità, tema non certo nuovo, risponde a questa esigenza. Il fatto che in campo sia sceso il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi con un duro richiamo sul processo di integrazione – sul quale esistono visioni diverse e, dati i limiti di questo modello di costruzione europea, non tutte etichettabili come populismo d’accatto – dimostra quanto sia alta la posta in gioco.
In Italia ci si dovrebbe in particolare soffermare su questo passaggio di Draghi: «I governi sapevano quel che dovevano fare, la moneta non poteva proteggerli dalle loro stesse decisioni». Allo stesso modo, nemmeno la politica monetaria europea più accomodante di sempre potrebbe proteggere oggi l’Italia dalle decisioni sbagliate della sua classe politica e dagli eventuali passi falsi di un governo Gentiloni da poco insediato e che si trova a gestire una difficile transizione nella continuità politica del governo Renzi che l’ha preceduto.
Lo “sgarbo” dello spread riconferma che l'incertezza sul da farsi moltiplica i problemi e che una campagna elettorale permanente li aggrava. Se la montagna del debito non viene scalata con un impegno deciso e sistematico la discussione sulla nuova legge elettorale, per fare un esempio, può davvero assomigliare al famoso ballo sul Titanic. Non c'è dubbio che le regole europee debbano essere riviste e che il Fiscal compact debba in particolare essere messo al centro di un riforma profonda. Ma questa esigenza non può essere l'alibi per rinviare decisioni che in fondo attengono all'irrisolto caso di un sistema bloccato da decenni in una spirale di bassa crescita e alto debito. Non a caso il taglio delle spese è restato sempre, in buona sostanza, nei cassetti assieme ai progetti per una sterzata fiscale per rimettere in pista una ripresa decente. Vale anche per il 2017.7.